I diari di Ernst Jünger (1895-1998) sono come eruzioni vulcaniche che sorprendono senza preavviso e inondano di lava incandescente il lettore, attonito di fronte a tanta saggezza che s’accompagna a un’inondazione di spiritualità. Nel tempo del relativismo e delle derive nichiliste, l’introspezione jungeriana, affidata alle pagine del suo giornale intimo, è una sorta di riserva morale cui attingere per connettersi laicamente a una realtà trascendente che trasuda anche dalla descrizione di una quotidianità che in apparenza non presenta eccessive attrazioni, se non, ovviamente, quelle letterarie. Invece le pagine di Giardini e strade. Diario 1939-1940, di Irradiazioni. Diario 1941-1945 e ora quelle de La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione, 1945-1948 (Guanda, pp. 278, euro 20) trasmettono non solo il vissuto interiore dello scrittore tedesco, ma lo proiettano in una prospettiva storica e metafisica dalla quale è difficile staccarsi. Sicché la lettura non si riduce all’apprendimento delle piccole o grandi cose che hanno scandito nel corso del tempo la vita di Jünger, ma immette alla comprensione di un percorso segnato da una sacralità il più delle volte inespressa, comunque sempre presente, come se per lui lasciare «tracce di luce sul gioco delle onde dei giorni vissuti che, altrimenti, cadrebbe presto nell’ombra» sia più un piacere che un dovere. Ecco la spiegazione della “necessità” di tenere un diario.
Così, con la sobrietà che caratterizza le sue annotazioni, Jünger, nel journal, alla maniera dei memorialisti francesi, tenuto tra l’11 aprile 1945 e il 2 dicembre 1948, “riparato” in Bassa Sassonia prima di stabilirsi a Wilflingen in Svevia, nella foresteria del castello di campagna degli Stauffenberg, dove è rimasto fino alla morte, riflette sull’universo desolato alle sue spalle e le miserie che gli si aprono dinanzi nell’attesa della rinascita. È un bilancio dell’orrore a cui fa da contrappunto la speranza della reinvenzione della vita inseguita non come lavacro degli errori che lo hanno visto suo malgrado partecipe, bensì come riscatto di un popolo nel tempo di quella che avrebbe chiamato di lì a qualche anno «la pace universale», succedanea dell’inevitabile e perniciosa «mobilitazione totale» cui pure aveva donato se stesso, immaginando un’altra Germania in un’altra Europa, entrambe, purtroppo, soggiogate da un Leviatano la cui mostruosa epifania non poteva prevedere.
Non tutti gli invasori sono brutali; tutti gli scampati allo sterminio sono monumenti alla pietà. Un’umanità dolente e pure piena di aspettative si affolla per le strade della Germania disfatta: «I contadini sono tornati nei campi. Anch’io ho ripreso a lavorare - nell’orto, alle collezioni, alla scrivania, mentre fuori continuano a infuriare i motori». La normalità di una vita che non potrà comunque mai più essere normale s’affaccia nel piccolo mondo di Jünger tempestato da dolori insopportabili, come la morte di Ernstel, caduto sul fronte italiano a 20 anni, nel 1944.
Anni cruciali e decisivi prendono a danzare nelle memorie. La resa incondizionata, la fine di Mussolini, di Hitler, di Goebbels, di Himmler, la capitolazione del Giappone, le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il ritorno dell’energia elettrica, la posta che riprende ad arrivare, la fioritura del giardino, i frutti dell’orto, le mani che affondano nella terra da coltivare e che scrivono nuove opere: tutto fa parte della resurrezione nella quale affiorano ricordi di eventi e volti che non vedrà mai più. Il rimpianto e la nostalgia si confondono con il sorriso che riappare sul volto degli sconosciuti che incontra: segni, come dice, di un «eterno ritorno» che offre a chi riesce a scorgerli e a leggerli la consapevolezza della sua storicità e della sua spiritualità. Scrive: «Il dolore più profondo sta nella nostra rinuncia alla salvezza. I conflitti morali non sono che un sintomo di questo; sono, come la febbre o un’eruzione cutanea, i segnali di un focolaio nascosto. Nel corso di simili crisi è messo in dubbio il mondo nel suo complesso, perché è sulla nostra salute che si regge il suo equilibrio. Ciascuno di noi è Atlante, che regge l’universo sulle proprie spalle. Questa spaventosa coscienza del tracollo non conosce eguali. Nemmeno il panico causato dall’ottenebramento della mente, che neppure è considerato tra le torture più atroci, regge il confronto. Messi di fronte all’ultima prova dobbiamo scegliere: o lo spirito o la salvezza».
Davanti a queste parole, mi è tornato alla mente un ricordo. A fine ottobre 1986 accompagnai Jünger, dopo aver trascorso qualche giorno con lui, a far visita al sepolcro dell’imperatore Federico II nel Duomo di Palermo. Sostò a lungo davanti al sarcofago senza distogliere lo sguardo: per una curiosa coincidenza un’orchestra provava la Seconda sinfonia di Mahler. Quella musica accompagnava i pensieri dello scrittore che poi mi confessò perduti in una meditazione sul Tempo e la Gloria: aveva 91 anni ed era consapevole che la clessidra si stava svuotando. Nel 1948 aveva scritto: «L’eternità non è una grandezza bensì una qualità». Forse questo pensiero lo attraversò allora. E probabilmente si sarà chiesto se di lì a poco avrebbe scelto lo spirito o salvezza. Ineludibile tanto per lui anarca, quanto per un grande monarca. Non sapremo mai con certezza l’esito di quella possibile domanda, ma un’idea che la possiamo fare con questi diari di un entomologo dell’anima.
(di Gennaro Malgieri)
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