Quarant'anni fa Yukio Mishima, il più grande scrittore giapponese del XX secolo, si “suicidava” nel quartier generale dell'Armata Orientale a Tokio. Mai come in questo caso, le virgolette sono d'obbligo nel verbo “suicidarsi”: se da un lato, infatti, descrive la storicità degli eventi, dall'altra non restituisce l'autentico valore di quell'infuocato gesto che l'autore di “Colori proibiti” e de “Il padiglione dell'oro” e di numerosissime altre pagine di infinita letteratura compì come nobilitazione di un'esistenza esaltante.
Anzi, è proprio dalla sua morte, che occorre iniziare per ammirarne la sua opera. Il seppuku non è un semplice suicidio, ma un rito attraverso il quale il “samurai”, facendo uscire le viscere dalla loro sede, può raggiungere il “centro della forza e della vita” e, dunque, comprenderne il senso ultimo. Il seppuku non è un gesto di angoscia, ma è l'epilogo di una vita arrivata al suo limite estremo.
Mishima – che pure aveva 45 anni – considerò di aver conquistato tutti i possibili traguardi e, di conseguenza, non credette di dover andare oltre nella vita terrena. L'insegnamento è posto nella intimità della sua estesa opera – letteraria, teatrale, cinematografica e saggistica – nella quale affiora il conflitto tra arte e vita, tra simulazione e realtà, tra pensiero e azione.
E' sempre in questo conflitto che si rivelano le radici del tradizionalismo di Hiraoka Kimitake: non un reazionario con inquietudini “fascistoidi”, bensì un uomo estremamente pervaso del misticismo giapponese, il quale, pur avendo avvertito le opportunità derivanti dalla modernità, ravvisava nel progresso il ripudio di quel rapporto che lega la vita degli uomini con l'entità divina e spirituale.
Per Mishima, l'arte non racchiude la vita, ma, favorendone una maggiore comprensione, specialmente nelle sue congenite debolezze, la annicchilisce, trasmettendola all'eternità.
(di Longinus)
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