giovedì 28 gennaio 2010

No al burqa ma niente guerre di religione


Via, togliamoci il burqa dell'ipocrisia e guardiamo in faccia la realtà. La guerra sul burqa non riguarda le popolazioni, non è una guerra civile ma simbolica. Già da loro il burqa è usato da una sparuta minoranza in alcuni paesi. Da noi quante donne islamiche indossano il burqa? Pochissime. La maggior parte di loro punta all'integrazione e vi arriva nell'arco di una generazione; magari usano il velo sul capo ma con il viso scoperto. E non mi pare che il chador o affini siano una minaccia alla nostra identità o un'offesa alla nostra costituzione repubblicana. Semmai è un ritorno alle madonne del nostro passato, alle vecchie di paese e di campagna, alle vedove con lutto permanente sul capo o ai fazzoletti in testa per caricarsi di ceste.
Le rare islamiche che da noi portano il burqa non lo fanno né per osservanza religiosa né per amor di tradizione, ma per una forma ostile nei confronti della nostra civiltà e una rivendicazione di appartenenza. Il nostro criterio dev'essere chiaro e fermo: rispetto di ogni tradizione religiosa purché non confligga con i nostri codici. Sì al chador, no al burqa, ovvero libertà di costume eccetto gli estremi, ovvero denudarsi in pubblico o barricarsi integralmente, volto incluso, perché dev'essere possibile identificare le persone. Sì alla preghiera sul tappeto verso la Mecca, no all'infibulazione; sì alla libertà di culto e all'osservanza religiosa, no all'obbligo violento al culto e all'osservanza religiosa. Libertà di edificare le moschee ma fuori dai centri storici, non a ridosso dei nostri santuari, costruite su suoli privati con soldi privati; e moschee trasparenti, cioè controllabili, perché non diventino covi di nemici e allevamenti di terroristi.
La vicenda può essere sbrigata con buon senso sul piano giuridico e pratico, evitando opposte crociate e assurde guerre di religione. Non perché la religione non conti e non vada rispettata, ma al contrario, perché qui non c'entra la religione e la blasfemia, ma l'ordine pubblico e il rispetto delle leggi.
Allora il discorso che resta in piedi riguarda i simboli e i principi. Che società vogliamo costruire nel nostro Paese? Che messaggio vogliamo dare agli italiani e agli immigrati? Qui danzano i vari modelli culturali: una società che assimila e integra, una società in cui le culture e le comunità restano distinte e parallele, o una società meticcia in cui mescolare le culture. Assimilazionismo, meticciato, melting pot, società multietnica o multiculturale...
La Francia ha fatto una scelta, ma non è una scelta nel nome della Tradizione europea e della civiltà cristiana, come pensano alcuni plauditores nostrani, soprattutto della Lega; è una scelta fatta nel nome della tradizione repubblicana e della rivoluzione francese che bandisce i simboli religiosi. Ovvero, la cittadinanza è l'unico spazio pubblico, le religioni sono un fatto privato. La scelta di Sarkozy non è una svolta ma una conferma, si riannoda a una tradizione laicista francese, comune a sinistra e destra. Infatti, ricorderete che anche Chirac aveva scelto la strada del disarmo bilaterale dei simboli cristiani e dei simboli islamici, e di ogni altra religione. E la Francia, di destra o di sinistra, a livello europeo, sostiene il Partito Laicista che nega la radici cristiane dell'Europa. A proposito di radici, l'altro giorno nel comitato per i 150 anni dell'Unità d'Italia un autorevole storico ha criticato la mostra promossa dal comune di Roma «Alle radici dell'identità nazionale», perché la parola radici evoca, a suo parere, una preoccupante matrice razzista. Ho dovuto ricordargli l'uso universale dell'espressione radici per indicare le origini e la provenienza e ho dovuto rammentare che il più celebre elogio delle radici l'ha scritto la pensatrice ebrea, operaista e repubblicana Simone Weil. È chi carica di significato razzista la limpida e naturale parola radici a darne una lettura ideologica e inquietante. Evoca più violenza l'opposto, lo sradicamento.
Ma torniamo al nostro discorso. Volete dunque seguire il modello francese? Penso che sia preferibile innanzitutto liberarsi dagli schemi e dalle rigide affiliazioni (modello francese, americano, british, brasiliano, ecc.) e tornare alla realtà. Noi siamo un paese nato e cresciuto nella civiltà cristiana e questo implica una cosa: rispetto della libertà e di ogni tradizione, ma a partire dalla nostra. La nostra civiltà, con le sue tradizioni, non può ritirarsi a vita privata, deve restare nello spazio pubblico: dal crocifisso ai mille simboli che informano la nostra vita civile. Dobbiamo avere un terreno comune su cui fondare la nostra vita pubblica. Ma a differenza delle teocrazie dev'essere possibile in questo contesto esprimere scelte, culture, religioni di altro segno. Rientrano nel diritto privato di ciascuno, di individui, gruppi e culture presenti e minoritarie. Purché non ferisca la sensibilità comune, ovvero le nostre tradizioni civili e religiose, e le nostre leggi, civili e penali. Come definire questa via? Io mi ostino a chiamarla comunità aperta, ovvero tutela della comunità e delle sue tradizioni ma senza chiusura né ostilità ad altre comunità o alla libertà dei singoli. Comunità aperta allo spazio multiculturale, rispettosa delle identità e delle differenze, a partire dalle proprie radici. Chi chiede la cancellazione dei simboli islamici, magari attaccandosi alla scelta di Sarkozy, non si rende conto che l'atto seguente è la cancellazione dei simboli nostrani e cristiani, come coerentemente fanno in Francia. Al contrario, penso che sia una ricchezza e una bellezza vivere in una società che si riconosca nel nucleo centrale della propria civiltà , attorniata da una libera costellazione di tradizioni minoritarie e di scelte individuali e di gruppo. Perciò difendo il diritto di indossare il chador, e a maggior ragione il diritto di esporre il crocifisso.
Torno infine al burqa. Mi capitò in un volo interno da Abu Simbel di una compagnia sudanese, di sedere a fianco di una donna col burqa. Aveva mani virili e ho pensato per mezzo viaggio che fosse un terrorista travestito. Per l'altra metà del viaggio invece ho cercato di capire cosa avrebbe fatto del vassoio di pietanze che ci avevano dato, come avrebbe potuto mangiare con quella saracinesca in bocca. Beh, è andata in bagno a mangiare o a cestinarlo. In quel momento ho incrociato il sorriso libero e sfacciato di una bella italiana che mi ha riconciliato con la vita.

(di Marcello Veneziani)

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