La parola d’ordine è
sempre la stessa: crisi. Riguarda l’economia e, da qualche anno,
anche la politica. L’alto astensionismo delle ultime elezioni è un
segnale inequivocabile. Il sentimento di impotenza delle istituzioni
e dei partiti appare chiaro. Secondo Marco Tarchi, politologo,
ordinario di Scienza politica all'Università di Firenze, il momento
è quello della fine di un’epoca. Ma particolare: «perché non si
vive nell’attesa della catastrofe, ma nell’indifferenza».
Aumenta il disinteresse
per la politica in gran parte dell’Europa. Si tratta di un fenomeno
comune o di una particolarità italiana? Che osservazioni si possono
fare?
I dati delle inchieste
demoscopiche ci dicono che la disaffezione nei confronti della
politica è in crescita un po’ ovunque, anche se l’Italia è uno
dei paesi in cui tocca le cifre più elevate. Certo, ci sono alcune
premesse da fare.
Quali?
Ad esempio che, se si va
al di là della retorica sulle virtù della società civile, ci si
accorge che da almeno mezzo secolo l’interesse per le vicende
politiche ha toccato sempre una quota minoritaria della popolazione –
i più si limitano a informarsi superficialmente e distrattamente
attraverso i telegiornali. Ma è l’effettiva importanza della
politica, oggi, ad apparire in piena crisi.
Perché?
Ogni giorno, di fatto, ci
viene ripetuto che quel che conta è l’economia, soprattutto nella
sua componente finanziaria. La nostra vita appare condizionata dai
mercati, o meglio dagli speculatori che lì operano, e tutt’al più
dai livelli di produzione e di occupazione, dal Pil, dai giudizi
delle agenzie di valutazione, dai differenziali fra i titoli del
debito pubblico e via dicendo. I politici appaiono impotenti di
fronte a questi fattori e preoccupati esclusivamente di mantenere i
propri privilegi: pure e semplici marionette incapaci di arginare la
crisi economico-sociale o perlomeno di rallentarne il corso. Se a
tutto ciò si aggiungono gli scandali che il ceto dei politici di
professione proietta a ciclo continuo sullo scenario massmediale, con
sprechi, ruberie e clientelismo, non si fatica a rendersi conto che
la politica è screditata.
Non è conseguenza del
decentramento politico a Bruxelles?
No. E lo spiego con una
domanda: chi è in grado di capire quali vincoli le decisioni
dell’Unione europea pone all’azione dei governi, e se essi
agiscono in senso virtuoso o vizioso? Una ristretta élite di addetti
ai lavori, che di solito si accapiglia in qualche talk show appena
l’argomento entra in gioco. Non credo quindi che questo elemento
incida davvero sull’opinione pubblica.
Tornando alla supremazia
dell’economia sulla poltica: quanto può avere influito nella
percezione di una sostanziale inutilità del voto?
Molto, è chiaro. Ma non
è l’unica causa. Anche se è evidente che c’è ancora chi presta
loro orecchio, i politici durante le campagne elettorali fanno a gara
nell’accumulare promesse che poi, regolarmente, non mantengono. Di
conseguenza, cresce il numero di coloro che considerano il voto
inutile e prevale l’opinione che, in fondo, candidati e partiti
siano “tutti uguali”. Anche perché, quando alcuni di loro vanno
al governo e sostengono di voler attuare il programma con cui si
erano presentati, è ai vincoli di bilancio, al debito pubblico, allo
spread, alla crisi economica globale che danno la colpa
dell’obiettivo mancato. E sono sempre meno anche quelli che pensano
che ai difetti della democrazia rappresentativa si potrebbe ovviare
con la mobilitazione dal basso. Per qualche giorno o settimana
compaiono movimenti di protesta – animati quasi solo da studenti –
che scendono in piazza e chiamano a raccolta il “popolo”,
indignandosi. Ma il popolo tace e le ondate defluiscono.
Anche l'alternativa di
Beppe Grillo sembra sgonfiarsi. Per molti è una delusione, per altri
il suo calo è un risultato prevedibile e fisiologico.
Il problema del M5S è
dato dal fatto che ad attrarre un elettorato così ampio e variegato
è stato esclusivamente il discorso pubblico di Beppe Grillo: un
discorso forte, urlato, pieno di rabbia e di buonsenso populista. Gli
eletti del movimento, invece di farsene megafoni ed imitarlo, si sono
collocati su una diversa lunghezza d’onda dividendosi su temi
tipicamente “politicisti” – se accettare un governo Bersani,
chi votare per il Quirinale (con la proposta di un esponente della
“casta” come Rodotà) ecc. –, proprio quelli che l’elettore
medio grillino detesta. Scarsamente socializzati alla linea del
leader e convinti, a torto, di essere stati premiati da un pubblico
davvero interessato ai temi discussi nei Meetup o nei comitati.
Questi esponenti istituzionali danno l’idea di un’armata
Brancaleone incompetente e rissosa. Se continuano così, finiranno
nel nulla, soprattutto gli scissionisti. La loro unica salvezza
sarebbe restituire a Grillo il ruolo che gli compete: quello di unica
calamita di consensi, con il suo repertorio populista di protesta.
Il Pd, invece, resiste
grazie a uno zoccolo duro di fedeli, mentre il Pdl è ai minimi
termini storici. Come potrebbe affrontare il futuro post-Berlusconi?
Questo è davvero un
quesito per ora insolubile, credo anche per lo stesso Pdl. Non credo
che il vagheggiato ritorno a Forza Italia possa cambiare lo stato di
cose. In politica, peraltro, i vuoti sono destinati a riempirsi e,
nello sgretolamento totale dell’area della destra post-neofascista,
il centrodestra dovrà trovare nuove forme di espressione. L’assenza
di elaborazione culturale per un ventennio e la rinuncia a coltivare
una classe dirigente all’altezza rendono impossibile capire come
ciò potrà avvenire nel breve periodo.
Insomma, a destra e a
sinistra si ha la sensazione di un declino costante. Sembra si
affondi sempre di più e più ci si muove e meno si fa. È la fine di
un'epoca?
Penso di sì, ma di
solito in circostanze simili si intravvede una via d’uscita, si
vive in un clima d’attesa della catastrofe e di ciò che le
seguirà. In questo caso, per riprendere la Sua metafora, sembra
invece di assistere ad un inghiottimento nelle sabbie mobili
dell’indifferenza, sia pur condita di disprezzo per tutto ciò che
sta accadendo nella sfera pubblica.
Ma perché?
Buona parte della
responsabilità di questo stato narcotico è nell’intensa opera di
convinzione operata a partire dagli anni Novanta da intellettuali,
politici e media per convincerci che quello in cui viviamo è
comunque il migliore dei mondi possibili, che la Storia è finita,
che il sistema politico ed economico che ci circonda non potrà mai
essere sostituito e che ci dobbiamo accontentare di farlo guidare, in
alternanza, oggi da una destra liberale, domani da una sinistra più
o meno altrettanto liberale. Le minacce del salto nel buio,
l’enfatizzazione delle minacce terroristiche sottese a uno scontro
di civiltà, e soprattutto la retorica dell’inevitabilità della
globalizzazione e dei suoi esiti, nella vulgata con cui sono state
alimentate le opinioni pubbliche, hanno prodotto la paralisi di ogni
autentica volontà di reazione.
Ma non ci sono movimenti
alternativi?
No: i periodici sussulti
giovanili, in stile indignados o Occupy Wall Street, non devono
ingannare. Certo, prima o poi questa camicia di forza cederà, ma al
momento non so prevedere né quando né come.
(fonte: www.linkiesta.it)
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