venerdì 26 febbraio 2010

Il pallone è al fischio finale


Non c'è bisogno di essere delle Cassandre per vaticinare il prossimo crac del sistema del calcio europeo. Da anni i ricavi non coprono i costi e le spese sostenute per il parco-giocatori hanno una peso determinante sul segno finale dei conti societari. I club passano di mano da un patron all'altro, ma i soldi in circolazione non sono più quelli degli anni d'oro. Il sistema del pallone non ha trovato - e non sembra nemmeno cercare - una nuova sostenibilità, che deve passare necessariamente per il fair play finanziario: vale a dire regole uguali per tutti gli operatori, il mercato dei calciatori ridimensionato su valori più in linea con l'attuale situazione economica, e soprattutto parametri finanziari più rigidi, pena l'esclusione da campionati e trofei internazionali.

Un messaggio che, più volte, il presidente della Uefa, Michel Platini, ha inviato ai numeri uno dei grandi club, senza mai ricevere un cenno di adesione. Negli ultimi anni tutti i top team hanno continuato a crescere in termini di fatturato, grazie a sponsorizzazioni sempre più importanti, alla partecipazione a tornei di lusso in terre esotiche e alla diffusione dei diritti media sia in ambito domestico che internazionale. Ma, a fronte di questo incremento nei ricavi, i debiti hanno continuato a crescere, per una gestione poco lucida del cash flow e anche perché si è ritenuto che il sistema finanziario potesse venire incontro a chi è capace, comunque, di produrre reddito. Peccato, però, che le società che generano utili hanno utilizzato questi soldi per ripagare il costo dei tassi d'interesse su un debito in continua crescita.

Il sistema del calcio europeo insomma è a un passo dal collasso e molti patron sono stanchi di depauperare i propri patrimoni personali o familiari. Il Manchester United di Malcolm Glazer, il club più ricco al mondo per valore economico complessivo, ha tirato un sospiro di sollievo solo dopo essere riuscito, nelle ultime settimane, a ristrutturare il proprio debito con un'operazione finanziaria di tutto rispetto, mai tentata prima da un club di calcio. Grazie infatti all'emissione di un bond da 500 milioni di sterline della durata di sette anni (progetto curato dalla banca d'affari JP Morgan e da Deutsche Bank) i campioni d'Inghilterra pagheranno, nelle prossime stagioni, meno interessi sul totale dei debiti. Un maquillage finanziario che potrebbe non essere sufficiente, costringendo alla fine l'attuale proprietà a passare la mano al migliore offerente. Nell'ultima stagione i Red Devils hanno messo a segno un risultato positivo di bilancio solo grazie alla cessione dell'asso Cristiano Ronaldo, venduto per 90 milioni di euro al Real Madrid, altrimenti altri 38 milioni di euro di perdite si sarebbero aggiunti allo stock già pesantissimo di 800 milioni di debiti. Altri club inglesi hanno pensato di utilizzare un sistema più semplice, ovvero convertire il proprio indebitamento in azioni. Il Chelsea ha trasformato l'esposizione finanziaria che aveva nei confronti del suo stesso proprietario, il magnate russo Roman Abramovich (pari ad oltre 900 milioni di euro di debiti), in nuove azioni. In pratica Abramovich ha azzerato quasi un miliardo di debiti rimettendoceli dal suo patrimonio personale. Il Chelsea è una società che perde, ogni anno, decine di milioni di euro e, senza un freno alle spese, nell'arco di poche stagioni si ritroverà di nuovo con un'esposizione finanziaria elevatissima. Una situazione insostenibile anche per un tycoon del calibro di Abramovich.

Situazione simile l'ha vissuta più recentemente il Manchester City, acquistato dalla famiglia reale di Abu Dhabi, che ha quasi azzerato l'indebitamento trasformandolo in azioni, sulla scia dell'operazione del Chelsea: ma, ogni anno, il secondo club di Manchester continua a produrre perdite ingenti. L'Arsenal, altro storico team della Premier league inglese, ha emesso obbligazioni garantite dagli incassi dell'impianto sportivo (l'Emirates stadium) per finanziare i propri debiti.

In Italia le due corazzate Inter e Milan producono perdite per centinaia di milioni al termine di ogni stagione, conti negativi che devono poi essere ripianati da aumenti di capitale sottoscritti dai presidenti-proprietari. E se Moratti finora ha aperto il portafogli generosamente, si sa che invece Berlusconi è sempre più frenato dai figli, poco entusiasti di gettare soldi nel pallone. In serie A tra i top club solo la Roma e la Juventus (entrambe quotate in Borsa), tentano di seguire una strada di contenimento dei costi, non potendosi permettere di investire ulteriori soldi e non essendoci, al momento, alcuna cordata pronta a rilevarle.

Nell'ultimo anno, poi, in Germania è esploso il caso Schalke04. La società tedesca apparentemente solida, nonostante la sponsorizzazione ricchissima di Gazprom (25 milioni di euro per i prossimi quattro anni), è riuscita ad arrivare a un'esposizione debitoria di 280 milioni di euro, il 45 per cento di tutto il rosso della Bundesliga (pari a inizio stagione a 610 milioni di euro). Cifre elevate, ma inferiori, per esempio, ai 3,5 miliardi della Premiership britannica o ai 2 miliardi circa della serie A tricolore. Se il calcio tedesco è al momento il più virtuoso, in termini di esposizione finanziaria, lo si deve al forte contenimento dei costi praticato nelle ultime stagioni. Una politica che ha relegato la Bundesliga, a livello internazionale, un gradino più in basso, ma che consente ai club (nella stragrande maggioranza dei casi) di sopravvivere. Nel 2004-2005 il Borussia Dortmund, uno dei più amati in Germania, è arrivato a un passo dal fallimento, con un debito di poco superiore ai 150 milioni di euro. Oggi, il Manchester United ne ha uno di 800 milioni. Un dato che rappresenta oltre due volte il fatturato annuo (fermo a 365 milioni). Se uno Stato sovrano avesse un rapporto tra debito e Pil superiore al 200 per cento, la comunità finanziaria toglierebbe ogni fiducia, portando lo stesso, inevitabilmente, al default dei conti.

Se la Premier League inglese naviga, tra mille difficoltà, con piccoli club che passano la mano o vengono venduti per una sterlina (è il caso del Portsmouth, che rischia di essere dichiarato fallito il prossimo primo marzo), nel calcio spagnolo la situazione non è certo migliore. Ai grandi club come Real Madrid e Barcellona, i cui debiti per ora sono garantiti dalle banche, si affiancano altre piccole e medie strutture che hanno raggiunto livelli di criticità senza precedenti. Come per esempio il Valencia o l'Atletico di Madrid, rispettivamente con un indebitamento pari a 3,5 volte e a 3,8 volte il fatturato. In più i valenciani rischiano di rimanere schiacciati dagli impegni assunti per la costruzione del nuovo stadio, il Mestalla, che non costerà meno di 240 milioni di euro. Un investimento previsto molti anni fa, quando la recessione era lontana.

Sempre a proposito di debiti, molte società sono esposte verso il sistema bancario non per gli investimenti effettuati, che in prospettiva potranno portare maggiori ricavi (come l'ampliamento di stadi o la costruzione di nuovi centri polifunzionali), ma per una scorretta gestione della spesa corrente. Un comportamento, quest'ultimo, che in prospettiva non lascia spazio ad altra soluzione che il fallimento o, finché regge il giochino, al passaggio di mano di una squadra da un patron all'altro. Praticamente l'unica figura che oggi garantisce, quale che sia il mercato di appartenenza, la sopravvivenza all'interno di un sistema sempre più colpito dalla perdurante crisi economica.

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