L'ultima volta che ho visto Teodoro
Buontempo è stato non molti anni fa, a una
cena organizzata dal direttore di un quotidiano di cui era divenuto
fresco collaboratore con una rubrica dal titolo assertivo com'era nel
suo stile, qualcosa tipo «Io la penso così» o «Dite la vostra che io
dico la mia».
Abruzzese, Teodoro si mascherava dietro
la rudezza e la testardaggine della sua regione ma, politicamente
parlando, era molto meno naïf di quello che voleva far credere, e in un
mondo quale quello neo e post-fascista fra gli anni Sessanta e gli anni
Novanta del secolo scorso, fu in grado, quanto a tattica e strategia, di
muoversi all'interno del suo partito con autorevolezza e successo.
In quella cena, di là dai capelli divenuti ormai tutti bianchi, c'era
ben poco che lo differenziasse da quello che, circa quarant'anni prima,
avevo conosciuto. Era stato nel corso di uno scontro universitario alla
Sapienza di Roma, conclusosi con lui alla guida di un corteo di cui, a
un certo punto, era divenuto l'unico membro, un megafono in una mano,
una sega nell'altra. Avete letto bene, una sega. Correndo lungo via
Siena con altri «camerati», Teodoro aveva adocchiato gli arnesi sparsi
di un lavoro in corso da cui gli operai avevano velocemente sloggiato
sentendo le urla belluine di inseguitori e di inseguiti, e aveva tirato
su la prima cosa trovata per terra, per poi rigirarsi e partire al
contrattacco. «Compagni/attenti/Ci stiamo incazzando», aveva urlato
ritmando, e questi saggiamente avevano pensato che non fosse il caso di
andare oltre.
«È l'orizzonte di vita che mi manca», mi disse quella sera. «Continuo
a ragionare come se davanti a me ci fossero venti, trent'anni e invece
razionalmente so che non è così. Siccome fisicamente e mentalmente mi
sento bene, la cosa mi fa ancora più incazzare». Aveva mandato i figli a
studiare in un college inglese, sposato quella che era stata la sua
fidanzata storica, laureata in Filosofia e intellettuale tanto quanto
lui manifestava per gli intellettuali puri non voglio dire disprezzo, ma
fastidio misto a derisione. Fra le leggende che gli circolavano
intorno, c'era quella di un congresso della gioventù missina nel quale
un virgulto dell'allora Giovane Italia aveva chiuso il suo discorso
citando Ugo Foscolo. «Questo Foscolo lo abbiamo espulso mesi fa», aveva
tuonato lui in risposta, dal banco della presidenza. Vera è però la
replica a un gruppo di evoliani, meglio evolomani, che lo assillava con
l'età del kalijuga, il tempo della decadenza senza speranza. «Con il
vostro Evola, in politica ci fate le pippe», era stata la replica. Non
aveva tutti i torti.
Della generazione missina che poi divenne forza di governo ed ebbe
ministri e sottosegretari, Teodoro non fece parte. Parlamentare per più
mandati, non è però mai andato oltre il Comune, la Provincia e la
Regione, e credo che questo orizzonte lo racconti meglio di qualsiasi
necrologio. Visti i nomi, e le facce, di molti di quelli che ebbero
cariche nazionali governative, non siamo di fronte a un'insipienza, o a
una mancanza di ambizione. Più semplicemente, per uno che aveva
cominciato a fare politica dormendo in macchina non avendo i soldi
nemmeno per una pensione in zona Termini, c'era, credo, una sorta di
rispetto per una passione militante che era stata la sua ragione di vita
e che una successiva agiatezza media non aveva mai trasformato in una
sinecura o nell'idea del posto fisso. Mi rendo conto che, detto oggi,
può suonare retorico o patetico, ma c'è stato, ancora sino al penultimo
decennio del secolo scorso, l'idea che la politica fosse un servizio e
non un mestiere e che non si vivesse di politica, ma per la politica.
Penso che, saggiamente, Buontempo, che da giovane era chiamato «Er
Pecora» per la sua regione d'origine e certi orribili giacconi pelosi,
via via che il tempo passava e gli ideali svanivano, si fosse reso conto
che muoversi all'interno di realtà locali che conosceva bene fosse più
soddisfacente e più in linea con la sua storia esistenziale che
esplorare lidi lontani dove, inevitabilmente, sarebbe stato succubo di
qualcuno e di qualcosa più forte, come potere, come pressione, come
convenienze, di lui.
Politicamente, non c'era nulla che unisse Buontempo al sottoscritto,
ma umanamente c'era fra noi quella simpatia che unisce chi al fondo ti
rispetta e sa, che in quello che fa, c'è la buona fede e non il calcolo.
Dell'avventura missina fino al lavacro di Fiuggi, Teodoro fu al livello
giovanile un protagonista, anche contro l'età che a un certo punto lo
mise fuori proprio per ragioni anagrafiche. Ciò non gli impedì comunque
di avere un seguito e di esercitare un potere. Di quello che avvenne
dopo, fu una sorta di esule riottoso e a suo modo coerente, nostalgico
di una linea sociale e popolare, legato al proprio passato e non
disposto, in nome del futuro, ad abiurarlo più di quello che la sua
dignità gli avrebbe consentito. Era fegatoso e sincero, una persona
perbene.
(di Stenio Solinas)
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