venerdì 26 aprile 2013

Buontempo, il fascista perbene che non ha mai fatto carriera


L'ultima volta che ho visto Teodoro Buontempo è stato non molti anni fa, a una cena organizzata dal direttore di un quotidiano di cui era divenuto fresco collaboratore con una rubrica dal titolo assertivo com'era nel suo stile, qualcosa tipo «Io la penso così» o «Dite la vostra che io dico la mia».

Abruzzese, Teodoro si mascherava dietro la rudezza e la testardaggine della sua regione ma, politicamente parlando, era molto meno naïf di quello che voleva far credere, e in un mondo quale quello neo e post-fascista fra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso, fu in grado, quanto a tattica e strategia, di muoversi all'interno del suo partito con autorevolezza e successo.

In quella cena, di là dai capelli divenuti ormai tutti bianchi, c'era ben poco che lo differenziasse da quello che, circa quarant'anni prima, avevo conosciuto. Era stato nel corso di uno scontro universitario alla Sapienza di Roma, conclusosi con lui alla guida di un corteo di cui, a un certo punto, era divenuto l'unico membro, un megafono in una mano, una sega nell'altra. Avete letto bene, una sega. Correndo lungo via Siena con altri «camerati», Teodoro aveva adocchiato gli arnesi sparsi di un lavoro in corso da cui gli operai avevano velocemente sloggiato sentendo le urla belluine di inseguitori e di inseguiti, e aveva tirato su la prima cosa trovata per terra, per poi rigirarsi e partire al contrattacco. «Compagni/attenti/Ci stiamo incazzando», aveva urlato ritmando, e questi saggiamente avevano pensato che non fosse il caso di andare oltre.

«È l'orizzonte di vita che mi manca», mi disse quella sera. «Continuo a ragionare come se davanti a me ci fossero venti, trent'anni e invece razionalmente so che non è così. Siccome fisicamente e mentalmente mi sento bene, la cosa mi fa ancora più incazzare». Aveva mandato i figli a studiare in un college inglese, sposato quella che era stata la sua fidanzata storica, laureata in Filosofia e intellettuale tanto quanto lui manifestava per gli intellettuali puri non voglio dire disprezzo, ma fastidio misto a derisione. Fra le leggende che gli circolavano intorno, c'era quella di un congresso della gioventù missina nel quale un virgulto dell'allora Giovane Italia aveva chiuso il suo discorso citando Ugo Foscolo. «Questo Foscolo lo abbiamo espulso mesi fa», aveva tuonato lui in risposta, dal banco della presidenza. Vera è però la replica a un gruppo di evoliani, meglio evolomani, che lo assillava con l'età del kalijuga, il tempo della decadenza senza speranza. «Con il vostro Evola, in politica ci fate le pippe», era stata la replica. Non aveva tutti i torti.

Della generazione missina che poi divenne forza di governo ed ebbe ministri e sottosegretari, Teodoro non fece parte. Parlamentare per più mandati, non è però mai andato oltre il Comune, la Provincia e la Regione, e credo che questo orizzonte lo racconti meglio di qualsiasi necrologio. Visti i nomi, e le facce, di molti di quelli che ebbero cariche nazionali governative, non siamo di fronte a un'insipienza, o a una mancanza di ambizione. Più semplicemente, per uno che aveva cominciato a fare politica dormendo in macchina non avendo i soldi nemmeno per una pensione in zona Termini, c'era, credo, una sorta di rispetto per una passione militante che era stata la sua ragione di vita e che una successiva agiatezza media non aveva mai trasformato in una sinecura o nell'idea del posto fisso. Mi rendo conto che, detto oggi, può suonare retorico o patetico, ma c'è stato, ancora sino al penultimo decennio del secolo scorso, l'idea che la politica fosse un servizio e non un mestiere e che non si vivesse di politica, ma per la politica. Penso che, saggiamente, Buontempo, che da giovane era chiamato «Er Pecora» per la sua regione d'origine e certi orribili giacconi pelosi, via via che il tempo passava e gli ideali svanivano, si fosse reso conto che muoversi all'interno di realtà locali che conosceva bene fosse più soddisfacente e più in linea con la sua storia esistenziale che esplorare lidi lontani dove, inevitabilmente, sarebbe stato succubo di qualcuno e di qualcosa più forte, come potere, come pressione, come convenienze, di lui.

Politicamente, non c'era nulla che unisse Buontempo al sottoscritto, ma umanamente c'era fra noi quella simpatia che unisce chi al fondo ti rispetta e sa, che in quello che fa, c'è la buona fede e non il calcolo. Dell'avventura missina fino al lavacro di Fiuggi, Teodoro fu al livello giovanile un protagonista, anche contro l'età che a un certo punto lo mise fuori proprio per ragioni anagrafiche. Ciò non gli impedì comunque di avere un seguito e di esercitare un potere. Di quello che avvenne dopo, fu una sorta di esule riottoso e a suo modo coerente, nostalgico di una linea sociale e popolare, legato al proprio passato e non disposto, in nome del futuro, ad abiurarlo più di quello che la sua dignità gli avrebbe consentito. Era fegatoso e sincero, una persona perbene.

(di Stenio Solinas)

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