Lionello Rossi Kobau, classe 1926, abita in una bella casa milanese vicina ai navigli. Nello sguardo intenso, ma con un guizzo di ironia, gli resta l’aria del giovane che fu, del soldato ragazzino che si arruolò a diciassette anni nel battaglione Benito Mussolini dei Bersaglieri della Rsi.
Sì, Lionello Rossi Kobau ha scelto di combattere dalla parte sbagliata, lo ha fatto in un’età che per definizione non è ancora quella della ragione ma quella del cuore, della rabbia, a volte dell’orgoglio. A tanti anni di distanza, seduto nel suo salotto dove lo costringono le sue anche malandate, quella decisione la racconta così: «Quando si parla dell’8 settembre e delle scelte che hanno fatto le persone non si ragiona mai a partire dai luoghi. Io ero nato e vissuto a Monfalcone. E in Venezia Giulia più che scegliere tra un’ideologia o l’altra si trattava di scegliere se restare italiani o accettare l’idea di un’occupazione slava. Io ho scelto di essere italiano, il resto è stata una conseguenza... Questo lo scoprirono, dolorosamente, anche coloro che scelsero di essere partigiani ma non vollero piegarsi alla volontà di occupazione dei titini». E proprio questa scelta di italianità ha portato Lionello Rossi Kobau a essere uno dei pochi testimoni superstiti degli atroci campi di concentramento jugoslavi tra cui quello di Borovnica. Campi in cui finirono non solo i «fascisti» della Rsi, non solo i poliziotti o i carabinieri, ma anche civili, partigiani, chiunque avesse un cognome italiano.
«Quello che è capitato a me e tanti altri - spiega Rossi Kobau - io l’ho messo subito per iscritto. Ogni volta che trovavo un pezzo di carta prendevo appunti. Ma poi per anni non ho avuto nemmeno il coraggio di pensarci. Ho trasformato tutto in un libro solo nel 2001 (Prigioniero di Tito 1945-1946, Mursia, euro 12,40, ndr). Prima in pochi avrebbero avuto voglia di ascoltare la mia storia. E del resto tornare a pensarci mi ha prodotto una grande sofferenza, anch’io per anni ho preferito non guardare indietro...».
E ascoltando il suo racconto questo desiderio appare più che comprensibile. «Il mio battaglione si è arreso ai titini il 30 aprile del 1945. Ci avevano promesso l’onore delle armi e un rapido rientro in patria. Noi ci abbiamo creduto: avevamo operato nella valle del Baccia, dove con la popolazione slovena avevamo stabilito rapporti più che cordiali nonostante la necessità di scontrarci con i partigiani che spesso erano loro parenti. Ma già il 3 maggio abbiamo capito di esserci sbagliati. Ci hanno portato a Tolmino, dove sono iniziati degli interrogatori brutali. Quello che potevi fare era solo cercare di scegliere la fila che portava alla stanza da cui sentivi urlare di meno... Cercavano di farci confessare qualcosa, qualsiasi cosa... Ma non erano gli sloveni con cui avevamo avuto a che fare a comportarsi così. Anzi, molte persone vennero dalla Valle del Baccia a portarci da mangiare. Mancando delle accuse di qualsiasi tipo i partigiani venuti da fuori dovettero inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa. E così uccisero a caso, portarono via 89 di noi. In parte li impiccarono, in parte li buttarono in una foiba, la fecero saltare con loro dentro...». Ma anche per i superstiti iniziò un’odissea tremenda. «Fummo portati al campo di Borovnica e lasciati morire di fame. In pochi giorni mangiammo tutta l’erba... Quando nel campo non ci fu più niente di verde qualcuno iniziò ad allungare le mani fuori dal recinto, i ragazzini che stavano sulle torrette gli sparavano addosso... E a noi toccava prendere i cadaveri e buttarli nelle latrine o nei canali vicini al campo...». E se gli abitanti di Borovnica, impietositi, cercavano di aiutare gli italiani, questo a volte era più un male che un bene: «Ci sono miei compagni di prigionia che sono stati appesi al palo con il filo spinato perché sono stati trovati con una mela. E dopo ore di tortura sono stati fucilati. Di alcuni ricordo i nomi: Fernando Ricchetti, Giuseppe Spanò... Di altri no, come un civile a cui venne spezzata la schiena...». Questa feroce macelleria con alti e bassi dura, per chi sopravvive e non viene rimpatriato prima, sino al 1946. «E lo ribadisco: per finire in questi campi bastava essere italiani, ho incontrato lì anche un ragazzo ebreo che si chiamava Davide e che aveva la sfortuna di parlare italiano. Ho incrociato anche partigiani della Garibaldi buttati lì con noi, uno che si chiamava Mario mi diceva: “Ma ti pare giusto che sia qui con te che la guerra l’hai persa?”. Io non sapevo cosa dirgli, a quel punto eravamo tutti solo poveri italiani. Spero si sia salvato».
E la cosa più grave, secondo Lionello Rossi Kobau, è che di quei prigionieri non importava nulla a nessuno: «In Italia si sapeva, sia per le testimonianze di alcuni dei primi che tornarono sia per le denunce del vescovo di Trieste... Sarebbe bastato mandare del cibo per maiali e un po’ di pressione diplomatica degli alleati per salvare molti dalla morte per fame... Gli jugoslavi non avevano quasi più nulla e quel poco non lo davano certo a noi... Tutti però erano troppo impegnati a suonare il violino a Tito per staccarlo da Stalin. Devo anche dire che a Borovnica c’era un commissario politico che si chiamava Anton Markovic e veniva da Dobrovo. Contestò molti dei soprusi che subivamo, litigò furiosamente con i comandanti del campo ma venne ignorato sistematicamente. Fu comunque uno dei pochi che cercò di far qualcosa...».
Ma ci sono anche eventi più recenti che fanno soffrire questo reduce da un’esperienza così terribile. «Ritrovare i corpi dei morti nel campo do Borovnica è quasi impossibile. I bersaglieri che invece vennero uccisi e infoibati vicino a Tolmino quelli sarebbe possibile ritrovarli. Ci provo dal 2006 anche grazie all’aiuto di alcuni abitanti. Ma le autorità slovene danno un aiuto formale e molto poco sostanziale. Si limitano a dire: voi diteci dove scavare e noi scaviamo. Quanto al Commissariato generale italiano per le onoranze ai caduti di guerra, i suoi vertici cambiano spesso e questo rende il lavoro discontinuo e sino a ora infruttuoso. E io divento sempre più vecchio e più stanco... Nel 2008 mi sono fatto accompagnare a Tolmino da mio figlio (il noto comico Paolo Rossi, ndr). Abbiamo idee politiche diverse, ma in questa vicenda mi ha sempre aiutato. Quando ha visto il paese mi ha detto: “Qui è pieno di turisti che vanno a pesca, sembra la Svizzera, non credo vogliano ricordare quel passato, non lo vogliono un cippo. Forse nemmeno per i loro...”. Temo avesse ragione, anche se io non voglio arrendermi».
(fonte: http://www.ilgiornale.it/)
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