venerdì 5 marzo 2010

La dolce (amara) vita di un satirico geniale

A vederlo con gli occhi di oggi, sembrano finti quei baffi neri, quegli occhiali neri e quelle sopracciglia nere un po’ all’insù, montati su un naso importante. Ricorda le maschere di gomma rese famose nell’avanspettacolo dai fratelli de Rege. Finto e mascherato sembrava pure il suo nome e il suo cognome: Ennio Flaiano è nome da classico latino o da filosofo stoico dell’antichità. Non è difficile immaginare Lucio Anneo Seneca che scrive lettere a Flaiano anziché a Lucilio. Lui stesso, del resto, raccontò che un giornalista inglese scambiandolo per un autore latino lo tradusse con Ennius Flaianus: «È probabile che io sia un antico romano dimenticato dalla storia, a scrivere cose che altri hanno scritto molto meglio di me: Catullo, Marziale, Giovenale».
E invece Flaiano è stato un osservatore acuto e smaliziato del nostro tempo, nato a Pescara proprio cent’anni fa, il 5 marzo del 1910, e vissuto nella nostra repubblica terrena e italiana fino al ’72. Passò indenne a fianco di un secolo agitato, feroce e passionale. Visse in mezzo a due guerre, più rivoluzioni e intermezzi coloniali, attraversò con l’impermeabile il fascismo e l’antifascismo, l’Italia cattolica e l’Italia comunista, senza bagnarsi. Si trovò per puro caso a Roma il giorno della marcia su Roma. Aveva dodici anni e di quel 28 ottobre ricordava la vetrina di una farmacia in via Tomacelli che esponeva una serie patriottica di profilattici, marca Fascio, marca Ardito, tra nastri tricolori. Non erano in camicia nera. Agli altri l’epopea della storia, a lui l’ironia del dettaglio.
Scrisse perfino, lui totalmente immune, sul più razzista dei fogli fascisti, Il Tevere di Telesio Interlandi e poi si ritrovò nel dopoguerra tra i radical chic dell’Espresso e i progenitori più sobri del Mondo. Ma passò indenne anche da quelle passioni. «La verità è che i contemporanei siamo appena un migliaio». Accanto a lui si sbranavano e si accapigliavano, lui continuava con ironia e distacco a fumare e a descrivere i risvolti minimi della vita, i vizi privati e le ossessioni minute. Descriveva lo Spirito del Tempo mediante la vita quotidiana. Rispetto al fascismo come all’antifascismo, rispetto alla Chiesa e alla Sezione, Ennio Flaiano restò imperturbato e indifferente. Lui pescarese, con il concittadino d’Annunzio non c’entrava nulla; al lato eroico preferiva il lato grottesco, all’esaltazione lirica del Vate preferiva la malinconia asciutta del satiro. E così, da viaggiatore distaccato, attraversò, schivandole, e un po’ schifandole, non solo le stagioni ideologiche del nostro Paese, ma anche i generi e i mondi della letteratura, dell’arte e del cinema.
Flaiano fu scrittore di frammenti, giornalista letterato, critico teatrale e autore cinematografico. Realizzò perfino un memorabile documentario televisivo, Oceano Canada. Uno scrittore eclettico che oscillò tra il Premio Strega e Alberto Sordi. Il primo lo vinse con Tempo di uccidere che gli pubblicò Longanesi, di cui scrisse uno splendido necrologio, descrivendolo fin nei suoi odi, mai personali «così allegri e impetuosi... un ammiratore dell’intelligenza altrui». Sordi invece fu lui a lanciarlo nel grande cinema. La fama di Flaiano è associata alla Dolce vita di Fellini, di cui scrisse la sceneggiatura che narrava un po’ autobiograficamente di un giornalista venuto a Roma dalla provincia. Della dolce vita Flaiano fu pure sacerdote nel tempio pagano di via Veneto. A lui si deve anche la nomea del Paparazzo: una società sguaiata, scrisse, merita fotografi petulanti: «Il fotografo si chiamerà Paparazzo», dal nome di un albergatore calabrese. «Emigrato intellettuale senza speranza di tornare», ma anche senza voglia, Flaiano ebbe un rapporto di amore-disprezzo per Roma e i romaneschi. Ma anche per l’Italia, in cui si sentì sempre un marziano e un allogeno benché profondo conoscitore degli indigeni: non sono fascista, non sono comunista, non sono democristiano - scrisse una volta - detesto il paternalismo e la città natale, non amo il calcio e non so cantare.
Per molti, notava Flaiano, l’italiana non è una nazionalità ma una professione. E in una pagina che sa di oggi: «Da parecchi anni l’Italia è stata invasa da un barbaro autoctono. Questo barbaro assedia la città dall’interno delle mura. Chiamatelo provinciale, neoricco, cafone \, per me resta un barbaro». Raccolse in versi nel fatidico 1968 una sequela di luoghi comuni che sono rimasti quasi tutti ancora intatti, del tipo venezia è da salvare, l’edilizia è in crisi, le acque sono inquinate, i treni ritardano, gli ortofrutticoli danneggiati dall’Unione europea (allora si chiamava Mec), la famiglia in crisi, il comune di Roma aumenta il disavanzo.
Corrosiva la sua satira sul comunismo, sui vantaggi di dirsi comunisti e di fare i radical chic. «Vogliono la rivoluzione ma fanno le barricate con i mobili degli altri». I fascisti, invece, restano per lui «una trascurabile maggioranza» nel Paese e Mussolini «era un tiranno accomodante e pieno di buona volontà... Non è da escludere che travolto dai nazisti, sarebbe diventato lui il presidente del Comitato di Liberazione».La sua prosa fu amara e lieve, acuta e dimessa, mai pomposa. Il suo pessimismo, anziché appesantire, donava leggerezza alla sua pagina, scansando intenti pedagogici ed enfasi costruttive, anche perché si accompagnava a quella capacità epigrammatica e sintetica che fu il dono di grazia di una generazione: quella dei Maccari, dei Longanesi e dei Montanelli. Come loro, Flaiano fu uno scrittore sprecato, dissipatore di talento in battute e in dispersive attività, poligrafo ai danni della sua stessa vita; o vivente ai danni della sua stessa prosa. Flaiano, il più scettico e antiprofetico degli intellettuali italiani, predisse e precorse l’avvento di un Paese scettico, annoiato e cazzeggiante. La sua prosa fu come un caffè, amara e scottante, ristretta, aromatica e un po’ eccitante; una delizia breve. Di lui ci resta l’ironia malinconica dell’intelligenza. Flaiano fu portatore sano d’italianità.
(di Marcello Veneziani)

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