In questo paragrafo, che costituisce un passaggio chiave del documento pontificio, il Papa afferma che negli anni Sessanta fu “determinante” “la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento del Concilio vaticano fu a volte frainteso” e vi fu “una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari”. “E’ in questo contesto generale” di “indebolimento della fede” e di “perdita del rispetto per la chiesa e per i suoi insegnamenti”, “che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi”.
In che senso il Concilio poté essere “frainteso”? Il breve, ma significativo accenno di Benedetto XVI merita di essere sviluppato. Occorre ricordare che durante i lavori dell’assise conciliare prese forma l’idea di una chiesa non più militante, ma peregrinante, in ascolto dei segni dei tempi, pronta a rinunziare alla verginità della sua dottrina, per lasciarsi fecondare dai valori del mondo. Offrirsi ai valori del mondo significava rinunziare ai propri valori, a cominciare a quello che è più intrinseco al cristianesimo: l’idea del Sacrificio, che dal mistero della Croce discende in ogni aspetto della vita ecclesiale, fino alla dottrina morale, che un tempo ispirava la vita di ogni battezzato, chierico o laico che fosse.
Il Concilio impose ai vescovi, come un dovere, la “sociologia pastorale”, raccomandando di aprirsi alle scienze del mondo, dalla sociologia alla psicanalisi. In quegli anni era stato riscoperto lo psicanalista austriaco Wilhelm Reich, morto quasi del tutto dimenticato in un manicomio americano nel 1957. Nel suo libro-manifesto “La Rivoluzione sessuale,” Reich aveva sostituito alle categorie della borghesia e del proletariato quelle di repressione e di liberazione, intendendo con questo ultimo termine la pienezza della libertà sessuale. Ciò implicava la riduzione dell’uomo a un insieme di bisogni fisici e, in ultima analisi, ad energia sessuale. La famiglia, fondata sul matrimonio monogamico indissolubile tra un uomo e una donna, era vista come l’istituto sociale repressivo per eccellenza: nessuna considerazione sociologica poteva autorizzarne la sopravvivenza. Una nuova morale, basata sull’esaltazione del piacere, avrebbe presto spazzato via la morale tradizionale cristiana, che attribuiva un valore positivo all’idea di sacrificio e di sofferenza.
La nuova teologia, spinta dal suo abbraccio ecumenico ai valori del mondo, cercò l’impossibile dialogo tra la morale cristiana e i suoi nemici. I corifei della “nuova morale”, che in Italia furono teologi come don Enrico Chiavacci don Leandro Rossi e don Ambrogio Valsecchi, salutarono come maestri del nuovo corso morale Wilhelm Reich e Herbert Marcuse. Nel 1973, a cura di Valsecchi e di Rossi, uscì, per le edizioni Paoline, un pomposo “Dizionario enciclopedico di teologia morale”, che ambiva a sostituire il classico, e ancor oggi prezioso “Dizionario di teologia morale” dei cardinali Francesco Roberti e Pietro Palazzini (la quarta edizione fu pubblicata da Studium nel 1968). Nel nuovo “Dizionario morale”, Enrico Chiavacci sosteneva che “la vera natura umana è di non aver natura” e che l’uomo è tale per la “tensione” che la sua coscienza esprime, indipendentemente dai “divieti” della morale tradizionale. Valsecchi affermava la necessità di svincolarsi da una concezione della morale che facesse appello a una fondazione metafisica della natura umana. Unico peccato, radice di tutti gli altri, quello “contro l’amore”, e unica virtù, quella di assecondare l’amore, naturalmente e non soprannaturalmente inteso.
I nuovi moralisti, definiti da qualcuno “pornoteologi”, sostituivano alla oggettività della legge naturale, la “persona”, intesa come volontà progettante, sciolta da ogni vincolo normativo e immersa nel contesto storico-culturale, ovvero nell’ “etica della situazione”. E poiché il sesso costituisce parte integrante della persona, rivendicavano il ruolo della sessualità, definita “funzione primaria di crescita personale” (così Valsecchi), anche perché, a dir loro, il Concilio insegnava che solo nel rapporto dialogico con l’altro, la persona umana si realizza. Citavano a questo proposito il concetto secondo cui “ho bisogno dell’altro per essere me stesso”, fondato sul n. 24 della Gaudium et Spes, magna charta del progressismo postconciliare. Chiavacci, Rossi e Valsecchi, contestarono pubblicamente, nel 1974, la posizione antidivorzista della Conferenza episcopale, ma continuarono ad essere per molti anni i “moralisti” più in vista della Chiesa italiana. Ancora oggi basta entrare in una libreria cattolica per trovare in primo piano sugli scaffali i loro libri, stampati da case editrici come le Paoline e la Queriniana.
Eppure, ciò che fa riflettere sono proprio vicende esistenziali, come quelle di Ambrogio Valsecchi professore di morale alla Facoltà teologica di Milano, consulente del cardinale di Milano, Carlo Colombo, al Concilio Vaticano II, alfiere della nuova morale, poi dispensato dai voti e sposato (con rito religioso) nel 1975, quindi divenuto nell’ultimo decennio della sua vita psicologo, analista e terapista di coppia. Altrettanto fallimentare è stato l’itinerario di colui che oggi è, con Hans Küng, il principale accusatore di Benedetto XVI: Rembert Weakland. Difensore ad oltranza della “rivoluzione sessuale”, dei diritti dei “gay” e delle donne nella Chiesa, Weakland non è più arcivescovo di Milwaukee dal 2002 quando fu “dimissionato” dopo che un ex studente di teologia l’aveva accusato di violenza carnale, rompendo il segreto che lo stesso Weakland gli aveva imposto in cambio di 450 mila dollari detratti dalle casse dell’arcidiocesi. La stampa “liberal”, lungi dal lapidarlo, lo trattò però con molto riguardo, come conveniva a un celebrato campione della Chiesa progressista quale egli era.
I nemici della tradizione hanno sempre preteso di opporre il primato dell’esistenza a quello della dottrina, il cristianesimo concretamente vissuto a quello astrattamente predicato. Il “tribunale della vita vissuta”, a cui essi si sono appellati, ha ribaltato però i loro giudizi e le loro previsioni. Chi ha voltato le spalle alla ferrea intransigenza dei princìpi per ancorarsi al molliccio fondamento della propria esperienza, è spesso fuoriuscito da quella Chiesa che diceva di voler meglio servire. Chi ha negato l’esistenza di una natura da rispettare, ha iniziato col soddisfare gli istinti della natura che negava, per assecondare poi le deviazioni che la volontà offriva alla sua intelligenza, disancorata dal vero. Il passaggio dalla etero alla omosessualità e di qui alla pedofilia è stato, per alcuni, se non cronologicamente, almeno logicamente coerente.
Oggi si può sostenere, in prima pagina di Repubblica, che il celibato ecclesiastico produce pedofilia. Ma su nessun giornale si potrebbe affermare l’esistenza di un nesso altrettanto diretto tra pedofilia e omosessualità. Lo impediscono le leggi di alcuni Stati europei, che hanno introdotto il reato di omofobia, ma più ancora lo vieta la censura culturale e sociale che riduce sempre di più i margini di difesa della moralità. All’interno di un certo mondo cattolico, ancora più grave è considerata l’affermazione di un rapporto, anche solo indiretto, tra la nuova teologia degli anni Sessanta e il pansessualismo che penetrò nella Chiesa dopo il Concilio. Benedetto XVI lo ha fatto e gliene va reso onore.
(di Roberto de Mattei)
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