Cose mai viste. La lite pubblica, personale, quasi fisica e altamente drammatica, che è scoppiata ieri alla prima direzione nazionale del Pdl, entrerà di diritto nel Blob dei programmi cult di Enrico Ghezzi. La rivedremo per anni, farà storia. Non si era mai vista una cosa del genere nella politica italiana, neanche ai tempi della Dc, quando pure le correnti e i conflitti dilaniavano il partitone di maggioranza relativa.
Per noi del Riformista non è stata una gran sorpresa. Da mesi ripetevamo, tra i pochi, che il conflitto tra i due leader del centrodestra italiano era una cosa seria, che si fondava su radicali divergenze politiche e di interesse, che non era solo - cosa che pure è - un contrasto di personalità; e che dunque non era sanabile. In molti avevano scommesso sul contrario: vedrete, a entrambi non conviene, dovranno trovare un accomodamento, magari faranno pure le riforme insieme. Evidentemente, non è andata così.
Chi ha vinto e chi ha perso? Mah. Se ci fosse un'opposizione reattiva e in forma, con una scena così ieri avrebbe stravinto l'opposizione. Insomma: il partito di governo si è esposto al pubblico ludibrio e ha dato uno spettacolo orribile di sè.
Quando parlo di spettacolo inverecondo non mi riferisco solo al litigio dei due leader, ma anche al conformismo dei supporter, al tono bulgaro del comunicato finale che esprime «gratitudine» a Silvio, alla ferocia con cui le ovazioni si abbattevano sui capi della dissidenza, ogni volta che venivano nominati.
Ma di un'opposizione in grado di far pagare questo spettacolo al momento l'Italia non dispone, dunque l'esito della partita va giudicato tutto all'interno di quell'aula, dentro il Pdl.
Gianfranco Fini ha ottenuto dal canto suo un risultato storico: ha costretto il premier a una discussione pubblica sulla salute, la linea e la leadership del partito carismatico. Con ciò stesso negandone e distruggendone il carisma. Berlusconi non ha affatto gradito, gli sono anzi saltati i nervi, e non ha resistito alla tentazione della replica immediata che ha poi acceso le polveri della rissa verbale, con la terza carica dello Stato che urlava sotto al palco con il dito puntato e il presidente del Consiglio che gli dava sulla voce dal palco. Tutta la liturgia che era stata preparata a imitazione delle procedure dei partiti normali, è allora saltata.
Fini ha fatto - almeno per chi come a noi è rimasto il gusto delle posizioni minoritarie e delle analisi politiche - uno splendido discorso. Diciamoci la verità: in questi giorni non era apparso molto chiaro, nelle confuse ricostruzioni dei suoi nuovi colonnelli, il contenuto politico del dissenso di Fini. Da ieri è chiarissimo, e molto ben argomentato. Non sempre, ma molto spesso convincente.
Innanzitutto la Lega. Fini ha lucidamente spiegato che effetti può avere nel lungo periodo sulla destra italiana l'aver dato in franchising alla Lega il suo sistema di valori e spesso anche la sua politica al governo. In secondo luogo ha definito le leggi ad personam di Berlusconi sulla giustizia come un colpo arrecato al valore della legalità, che pure la destra sbandiera. Infine è uscito dalla caserma, come aveva definito il Pdl, rivendicando il diritto-dovere al dissenso, alla minoranza, e anche chiedendo garanzie di rispetto e di ascolto per le posizioni di minoranza.
Però, bisogna dire che tutto questo sforzo di accendere una discussione politica è fallito. La risposta è stata una vera e propria umiliazione di Fini. Berlusconi gli ha detto chiaro e tondo di dimettersi da presidente della Camera trattandolo, proprio come Fini aveva paventato nel suo intervento, come un dipendente infedele. Gli ha detto che è un traditore, perché nell'ultimo incontro si era dichiarato pentito di aver contribuito a fondare il Pdl. Gli ha detto con il comunicato finale che correnti non saranno tollerate e che «se sgarra è fuori». Gli ha fatto dire da una sfilza infinita di interventi della nomenklatura che aveva torto, e nel cosiddetto dibattito non s'è sentita neanche una voce che desse ragione a Fini, perché i suoi si sono cancellati dalla lista degli interventi.
Lo scontro, non c'è neanche bisogno di dirlo, è dunque insanabile. Fini ha detto che non si dimette da niente e che non tacerà. Berlusconi prepara la ritorsione sui suoi uomini nel partito e nelle commissioni parlamentari, e sfiderà con una raffica di voti di fiducia la pattuglia parlamentare finiana, per vedere quanti reggono e quanti ne può cacciare. Ma la conseguenza più importante della giornata di ieri travalica il dibattito nel Pdl.
La verità è che ciò che è accaduto è l'ultimo e più clamoroso sintomo della crisi che sta sconvolgendo il fragile e imperfetto bipolarismo italiano. La camicia di forza in cui era stato costretto dalla nascita dei due partitoni è già piena di strappi. Da quando Pdl e Pd esistono, la crescita delle forze più estreme è stata esponenziale, la Lega da un lato e Di Pietro dall'altro. E la crescita di queste forze ha a sua volta avviato una reazione a catena nei due partitoni, con Fini che sbatte la porta per colpa della Lega e il Pd dilaniato dal rapporto con Di Pietro. A tutto questo oggi si aggiunge la nascita di fatto di una pattuglia finiana in parlamento, che peserà eccome, per esempio nel delicato processo di riforme istituzionali, che credo realistico considerare già tramontate, a questo punto.
Il simulacro del bipolarismo italiano resta appeso al solo corpo mistico di Berlusconi, il Peron della Seconda Repubblica, che con la forza dei suoi voti e della sua popolarità tiene in piedi un sistema già defunto, anche se non lo sa ancora.
(di Antonio Polito)
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