Lo minaccia con orgoglio, un orgoglio tutto «pontino», quasi per ribadire quel senso di appartenenza che da sempre contraddistingue lui e i suoi libri (Palude, 1995; Il Fasciocomunista, 2003; Canale Mussolini; 2010). Quando Antonio Pennacchi (nato a Latina nel 1950 da una famiglia di coloni arrivati quaggiù per la bonifica dell’Agro, veneto per madre e umbro per padre) ha qualcosa «che non gli va giù», è subito pronto «a scendere in piazza». E non in una piazza qualsiasi, ma Piazza del Popolo (in realtà per la sua protesta lo scrittore preferirebbe l’angolo della piazza con i portici del Municipio), uno dei luoghi storici di Latina (con la Torre Civica, la Fontana della Palla, Piazza della Libertà, Corso Repubblica, il Palazzo delle Poste, Piazzale Bonificatori), la «più grande città di fondazione dell’epoca fascista», nata come Littoria il 30 giugno 1932, più volte candidata (vista l’integrità) a diventare «Patrimonio dell’umanità».
Antonio Pennacchi (tra i grandi favoriti dello Strega 2010) è in qualche modo il simbolo di un mondo dove si intrecciano le storie di Volsci, Romani, Saraceni, Papi vari: tutti più o meno sconfitti (nella loro voglia di bonifica) dalla malaria e dalla zanzara anofele. «Solo Mussolini ci è riuscito - dice -. Grazie a lui ci siamo potuti creare il nostro Paradiso in una terra inospitale e in questo siamo stati dei veri pionieri». E aggiunge: «Il fascismo è stato deleterio per i ceti medi, ma per i poveri una città come Littoria è stata la salvezza».
Questo ex-operaio, laureatosi in lettere «sfruttando un periodo di cassa integrazione», un percorso politico dall’Msi al Pd, un po’ come il personaggio di Accio Benassi protagonista proprio del Fasciocomunista (con la faccia di Elio Germano nel film di Daniele Luchetti Mio fratello è figlio unico, tratto appunto dal romanzo) sembra voler racchiudere nella sua vicenda personale il destino di un mondo, troppo a lungo dimenticato, quello dell’Agro pontino e delle sue palude (infine bonificate). Per lui se Latina (e i suoi quattordici piccoli borghi di fondazione limitrofi) è oggi ancora considerata un laboratorio di architettura (nelle sue strade e nelle sue piazze si intrecciano i nomi di Oriolo Frezzotti, Marcello Piacentini, Duilio Cambellotti, Angiolo Mazzoni) è dunque «merito di Mussolini» (non a caso sulla linea ferroviaria Roma-Littoria venne sperimentata la prima Littorina). Ma, pur non dimenticando (anzi ribadendo più volte) il fattore politico-estetico del progetto Littoria, Pennacchi sembra voler ribadire prima di tutto il lato romantico di questa epopea di migranti (citando Via col vento ma «non dalla parte di Rossella O’Hara» e la guerra di Troia «non dalla parte degli Achei ma piuttosto da quella di Ettore»). Dice: «Contro di noi, contro questa città si è consumata una sorta di damnatio memoriae». Una condanna che alla fine ha fatto dimenticare «le tante storie di immigrati come quella della mia famiglia». Gli stessi che hanno importato qui, «dove non c’era niente», quel che rimaneva del loro universo contadino che avevano appena lasciato. Un mondo che conserva ancora una propria forza visto che, dice Pennacchi, «continuo a pensare in veneto, tifo Roma ma anche Spal». E sempre a proposito di questo intreccio: «In città si parla più romanesco, anche se con molte parole venete, un romanesco legato a quel ceto impiegatizio cresciuto notevolmente durante il dopoguerra». E il veneto delle origini? «Rimane ancora nelle campagne, nelle vecchie generazioni, mia moglie parla ancora il veneto, mentre i miei figli parlano romanesco e italiano. E oltretutto tifano Lazio e non Roma». Una realtà certo unica, ma non poi così tanto: «Siamo unici ma non poi così tanto. La nostra insicurezza è la stessa che provano oggi quelli che lasciano l’Africa per venire a cercare fortuna qui in Italia». Lanciando anche un ponte ideale con quella colonia rumena così importante nella realtà attuale di Latina e dell’Agro Pontino («Sono come noi, le loro radici sono le stesse»).
Proprio in queste contraddizioni, dice lo scrittore, sta forse il mistero di quel «dissesto psicologico tipico degli immigrati», di quell’«incertezza dell’essere che ci porta ad essere anche un po’ mitomani». E anche questo è in fondo motivo d’orgoglio: lo stesso orgoglio che qualche tempo fa, dopo la dimissioni in blocco del consiglio comunale aveva fatto dichiarare a Pennacchi: «Non ci possono trattare così, noi di Latina».
(fonte: www.corriere.it di Stefano Bucci)
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