giovedì 3 giugno 2010

Le balle che preludono al caos


Nell'ultima pagina del mio libro "il denaro. «Sterco del demonio"», del 1998, dopo aver raccontato la trionfale cavalcata del denaro dall'epoca della sua prima apparizione (a cavallo fra l'VIII e il VII secolo a.C., in Lidia piccolo regno dell'Asia Minore nell'orbita della cultura greca) ai giorni nostri e della sua progressiva trasmutazione, quasi alchemica, da mero intermediario dello scambio, per evitare le triangolazioni del baratto, e misura del valore a merce vera e propria sia pur assai volatile, così concludevo: «Il giorno del Big Bang non è lontano. Il denaro, nella sua estrema essenza, è "futuro", rappresentazione del futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro, simulazione del futuro a uso del presente. Se il futuro non è eterno ma ha una sua finitudine noi, alla velocità cui stiamo andando, proprio grazie al denaro, lo stiamo vertiginosamente accorciando. Stiamo correndo a rotta di collo verso la nostra morte, come specie. Se il futuro è infinito e illimitato lo abbiamo ipotecato fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo di fatto inesistente. L'impressione infatti è che, per quanto veloci si vada, anzi proprio in ragione di ciò, questo futuro orgiastico arretri costantemente davanti a noi. O, forse, in un moto circolare, niciano, eisteniano, proprio del denaro, ci sta arrivando alle spalle gravido dell'immenso debito di cui l'abbiamo caricato. Se infine, come noi pensiamo, il futuro è un tempo inesistente, un parto della nostra mente, come lo è il denaro, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c'è, sul niente, sul Nulla. In qualunque caso questo futuro, reale o immaginario che sia, dilatato a dimensioni mostruose e oniriche dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente. Quel giorno il denaro non ci sarà più. Perché non avremo più futuro, nemmeno da immaginare. Ce lo saremo divorato».

È quanto sta accadendo, anche se non nei termini così radicali che io indicavo. Per un collasso definitivo ci vorrà ancora un po' di tempo. Non molto. Il prossimo colpo sarà quello del K.O.. Lo ammette il ministro dell'Economia Giulio Tremonti che in un'intervista ad Aldo Cazzullo afferma: «Il crollo delle piramidi di carta, nell'autunno 2008, ha causato il crollo dell'economia reale, che invece si stava sviluppando in senso positivo. Ora a rischiare per un nuovo immanente crollo dell'economia di carta non c'è solo l'economia reale, ma anche la struttura sovrana dei debiti pubblici e quindi dei governi».

Aggiunge infatti Tremonti: «Il salvataggio dell'economia di carta, garantito dagli Stati, ha riprodotto in forma diversa le stesse condizioni di crisi potenziale che c'erano appena due anni fa... Da un lato sul mercato "over the counter", il mercato principe dell'economia di carta sono tornati gli stessi valori ante-2008, dall'altro lato nel mondo ogni otto secondi si emette un milione di dollari o di euro di nuovo debito pubblico».

Tremonti ammette cioè che, come avevo scritto qualche tempo fa sul Fatto, la crisi è stata temporaneamente tamponata immettendo nel sistema altro denaro inesistente, drogato, tossico non meno dei titoli "tossici", nella speranza che il cavallo dopato faccia ancora qualche passo in avanti. Ma la cosa non può durare ancora a lungo, perché, prima o poi, arriva il momento fatale dell'overdose mortale.
«Ma come può intervenire la politica?» chiede a questo punto Cazzullo con un tremito nella voce (almeno così immagino).

«È già molto capire e l'impressione è che, sopra i popoli, superato lo choc iniziale, anche segmenti sempre più ampi delle classi dirigenti comincino a capire».

Ma noi non abbiamo bisogno di classi dirigenti che capiscono le cose quando sono già avvenute, che ci dicano il risultato della partita quando è finita. Ciò che io, che non sono un economista, avevo capito o intuito nel 1998, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti aveva il dovere di capirlo almeno nel 2007 quando ci fu il tracollo dei "subprime" americani. Le sue prediche di oggi, elargite con gran prosopopea, sono inutili oltre che sommamente irritanti (tra l'altro Tremonti, per salvarsi l'anima, colloca il sopravvento dell'"economia di carta" sulla cosiddetta "economia reale" nei primi anni del 2000, ma il processo si è prodotto molto prima, tanto che già nel 1964 l'americano David T. Bazelon, che non era neppure lui un economista ma un letterato, aveva scritto "L'economia di carta" che sosteneva questa tesi).

E ciò vale, ovviamente, non solo per Tremonti ma per tutte le classi dirigenti occidentali, politici, economisti, imprenditori, intellettuali che o non hanno capito, e allora sono dei coglioni indegni di dirigere una Asl, o sono dei mascalzoni che hanno fatto finta di non capire e ci hanno ingannato come continuano ad ingannarci. Perché anche la distinzione fra capitalismo finanziario e capitalismo industriale (l'"economia reale") è un inganno. Anche il capitalismo industriale si basa sulla stessa logica di quello finanziario: una inesausta scommessa su un futuro, additatoci continuamente, per tenerci al basto, come Terra Promessa, che arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo. Se mai il capitalismo finanziario, con la sua brutalità, ha il pregio di smascherare questo giochetto infame che dura da due secoli e mezzo e che deve finire. E finirà.

In un bagno di sangue, quando, crollato questo modello di sviluppo paranoico, la gente delle città, accorgendosi che non può mangiare il cemento e bere il petrolio, si dirigerà verso le campagne dove verrà respinta a colpi di forcone da chi, avendo compreso le cose per tempo, sarà tornato, come ai vecchi tempi, all'economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) in cui il valore di una mucca, a differenza di quello del denaro o del petrolio, resta sempre tale, perché una mucca bruca, trasforma l'erba in latte, caga come dio comanda e concima, in un ciclo biologico perfetto, e, al limite, se ne può sempre fare bistecche.
In quanto a Tremonti e a tutti i Tremonti della Terra per loro è pronto, se saranno ancora vivi, l'albero cui saranno pregati di appendersi.

(di Massimo Fini)

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