Cossiga non è solo un ex capo dello Stato, un esternatore folle, o l'inventore del Cazzeggio istituzionale. Giusto vent'anni fa, col suo formidabile piccone, Cossiga mise in cinta la Repubblica italiana, anche se poi non riconobbe la figlia che ne nacque. Voi dite Mani pulite, i referendum di Segni, la Lega, la discesa in campo di Berlusconi. Tutto vero, ma vennero dopo. In principio fu Cossiga. Che per cinque anni se ne stette a cuccia al Quirinale, rispettoso del mandato istituzionale, rigoroso osservante del ruolo e della norma, per far dimenticare le fuoruscite dal protocollo del suo predecessore Sandro Pertini. Poi, vent'anni fa, dopo che era caduto il Muro e prima che il Pci si suicidasse, Cossiga cominciò a dar di matto. Picchiò duro sui pregiudizi fradici su cui si fondava la Repubblica consociativa e partitocratica. E per due anni colpì, disse la verità, suscitò la voglia di cambiare, cavalcò per primo l'antipolitica, portò la fantasia al potere. Fu il nostro De Gaulle, ma solo nella pars destruens. Infatti a De Gaulle si ispirò quando fondò il suo partito, l'Udr, che poi lui stesso sconfessò. Tentarono l'impeachment, come avevano tentato di inguaiarlo ai tempi oscuri del suo ministero degli Interni, dopo il caso Moro. Ma oggi non saremmo qui se non ci fosse stato lui.
Ricordo che in quel tempo io fondai un settimanale che guardava a lui per fondare una nuova repubblica. Gli dedicai molte copertine e appelli. Sperai in lui, ma lui in cambio mi offrì un paio di belle interviste, qualche brillante conversazione e il privilegio di entrare in Senato senza cravatta, vestito da extraparlamentare ed extracomunitario.
Cossiga non è un fondatore ma un affondatore, non fondava seconde repubbliche come Pacciardi; era piuttosto uno Spacciardi, perché dichiarò spacciata la Repubblica che egli stesso incarnava. Un presidente kamikaze che aveva pilotato con sorriso beffardo la prima Repubblica a sfasciarsi sul nemico. La fortuna e la disgrazia di Cossiga fu che andò al Quirinale praticamente da ragazzo, al paragone con gli altri presidenti. E tuttora, 25 anni dopo, è il più giovane capo dello Stato vivente. Siede al Senato nello scranno col numero 007, lui che amava giocare con le spie. Ma si è barricato in casa e ha depositato una bomba a orologeria. Parlo di un bel libro dal brutto titolo, Fotti il Potere, che ha scritto con Andrea Cangini. Non va in giro a presentarlo, come ci si aspetta da ogni autore e ancor più da uno come lui. Si rifiuta, si nasconde, vive la sua solitudine depressa e dichiara di essere già morto.
Al di là di alcuni lati comici e grotteschi, Cossiga è un personaggio tragico. Dai tempi di Moro ai tempi del Piccone, Cossiga ha dovuto sparare il colpo di grazia a chi più amava: la Dc e i suoi capi, la cultura del diritto, la repubblica dei partiti in cui aveva prosperato. Più il Vaticano, i grembiulini, la Gladio, il Mossad, i poteri forti (Cossiga sostiene che ci furono interessi economici alle origini di Mani pulite, citando un'inchiesta dell'Italia settimanale sulla spartizione dell'Italia a bordo dello yatch Britannia). E non si è riconosciuto nelle creature che ha via via messo al mondo, il Nuovo e tutti i suoi Testimoni, il Partito e i suoi straccioni di Valmy, come li battezzò lui.
Senza di lui probabilmente non ci sarebbe stato né il primo comunista alla guida del governo, dico D'Alema, né la destra postfascista al potere, e forse nemmeno l'antipolitica, dico Di Pietro, Bossi e Berlusconi. Fu precursore perfino di Sgarbi e Dagospia. È lui stesso in questo libro a notare il paradosso di D'Alema portato da lui al governo con l'okay dell'America, con il compito di far entrare l'Italia in guerra con la Serbia: e D'Alema, primo comunista al potere, fu colui che bombardò con la Nato l'ultimo regime comunista d'Europa, provocando, sempre secondo Cossiga, «535 morti tra vecchi, donne e bambini».
È lui lo sdoganatore dell'Msi, che poi ha criticato la svolta nel vuoto di Fini, come criticò la deriva giacobina del rustico Di Pietro, che pure era suo figliastro: la sua vanga era la versione rurale del piccone. E non solo: qui vaticina il fallimento di Berlusconi, a cui pure mostra umana simpatia e sostegno, e di cui riconosce la voglia di lasciare un segno nella storia e non di pensare alle leggi ad personam, come dicono i suoi avversari. E a differenza loro lo critica non per l'autoritarismo ma per la sua debolezza.
Cossiga è tragico quando sostiene che la vita regge sulla menzogna, e la vita politica ancora di più: «La verità è che la menzogna ben più della verità è all'origine della vita, perché se gli uomini si sono evoluti è stato solo grazie alla loro capacità di mentire agli altri e a se stessi», Cossiga si diverte a dire la verità che coincide paradossalmente e tragicamente con la menzogna. La sua visione tragica è ancora accompagnata da un sardonico sorriso (l'aggettivo non è casuale per il sassarese). Ma Cossiga è tragico soprattutto perché in questo libro si sente odor di morte e di sfacelo, al punto da concludere il suo libro: «Io ero già morto ma la gente non se n'era accorta». Non vorrei spargere falsi allarmi e invadere la sua vita privata, ma temo che Cossiga stia accarezzando la tragica idea di rivolgere il piccone contro se stesso.
(di Marcello Veneziani)
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