sabato 3 luglio 2010

Elogio (tradizionalista) dei finiani sedotti dal più attuale dei fascisti rossi


Giacimento di tesori rimossi, la destra italiana; perfino quando si tratta della destra che stava a sinistra, figlia legittima del socialfascismo repubblicano. L’indispensabile editore Settimo Sigillo ne ha appena ripescato uno di Luciano Lucci Chiarissi, “Esame di coscienza di un fascista” (prima edizione: 1978), e i vitalisti finiani del Secolo d’Italia ci si sono precipitati con voluttà. Il condirettore Luciano Lanna ieri ne ha ricavato un articolo di valore – accompagnato da una testimonianza personale di Maurizio Bergonzini e da un vecchio schizzo biografico scritto da Giano Accame – che testimonia la volontà di una ricerca intellettuale continua, non museale e finalmente centrata sull’attualità di un pensiero genuinamente italico.

Lucci Chiarissi, ci ricorda Lanna, fu l’alfiere di un comunitarismo nazionale attento alla sfera dei diritti e ai destini delle giovani generazioni. Al tempo stesso fu protagonista di un’autocritica tenace nei confronti di alcuni contrafforti del tradizionalismo spirituale e dell’ideologia clericale. Ma ancora più spiazzante fu il suo giudizio su Piazzale Loreto inteso come “una pagina di tragedia” nazionale che non poteva esigere una vendetta da parte neofascista, quanto invece un interrogativo profondo sulle sue ragioni storiche e carnali, sulla grandezza drammatica e interamente italiana del corpo mussoliniano esposto a testa in giù a Milano. La domanda non deve però chiudere il cammino di ripensamento, anzi può aprire una via di reciproco riconoscimento con il nemico, e può condurre alla conquista di un avvenire liberato dalle categorie dell’ostilità (destra/sinistra) e dal determinismo dei cantori della sconfitta che popolano le catacombe post fasciste.

I finiani hanno ragione, e non solo dal loro punto di vista, a recuperare la formidabile tensione creatrice di Lucci Chiarissi, ex futurista acerbo abbeveratosi allo storicismo di Giambattista Vico, costruttore di un solido edificio nazionalpopolare (non populista: la parola gli era concettualmente antipatica) che avrebbe alimentato un gruppo di pensatori, quelli dell’Orologio, di gran lunga preferibili alle rimasticature della successiva Nouvelle droite francese. Lanna, più intelligente che spregiudicato, enfatizza con efficacia la lunga citazione di Cesare Pavese che introduce “Esame di coscienza di un fascista”: “Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue”. Impegno gravoso, dare voce al sangue dei vinti abbracciando l’intero spettro delle ragioni dei contendenti. Impegno disatteso da vittime deboli e rancorose e da carnefici inevitabilmente appagati dalla vittoria. Eccolo il male del Dopoguerra: non aver compreso che il sangue sparso nella guerra civile italiana richiedeva una purificazione. Purificare significa risanare comunitariamente gli effetti della strage domestica (qualunque strage) per tornare cittadini della stessa polis, della stessa Patria.

In età arcaica, dopoché gli alcmeonidi avevano fatto strage dei ciloniani rei di mire tiranniche (malgrado si fossero costoro rifugiati nel tempio di Pallade), Atene ebbe bisogno di un sapiente come Epimenide cretese, affinché purificasse una città divenuta empia nel fratricidio. Gli italiani hanno invece scelto di dividersi tra i dollari del piano Marshall e i rubli di Mosca. Povero Vico, lui che aveva attinto alla antiquissima italorum sapientia per asseverare la nostra primazia sul Mediterraneo, il mare così caro a Lucci Chiarissi. La cui frase più significativa, ma questo i finiani lo sanno bene, fu offerta per ironia della storia a un tradizionalista con i fiocchi, all’evoliano Gianfranco de Turris che lo intervistò nel marzo del 1969 sul Conciliatore (oggi lo si deve rileggere ne “I non-conformisti degli anni Settanta, Ares edizioni): “… dopo l’ingresso irreversibile di tutto il popolo nella vita sociale e politica, protagonisti civili della stessa non possono più essere un re o un’aristocrazia o una classe più efficiente, ma tutto il popolo attraverso le sue istituzioni e una classe dirigente selezionata sulla base della capacità d’interpretare assieme gli aspetti permanenti e le forze più vitali della comunità.

Questa è l’unica impostazione che può dare un significato al discorso nazionale e ha uno specifico riferimento alla nostra più genuina tradizione civile. Il sentimento della res publica ha avuto tale contenuto sia nella Roma antica sia nelle Repubbliche marinare e nei Comuni”. Nessun tradizionalista, nemmeno i tetragoni evolomani, potrebbe respingere tanta saggezza empirica fondata sul costume dei padri. Potranno allora i finiani ricordarsi, con noi e con Vico e con Lucci Chiarissi, che – giova ripetersi – per essere qualcosa domani bisogna essere stati qualcosa anche ieri? E che la comune tensione verso il futuro di un popolo, anche a non volerla imprigionare in “schemi a priori”, tanto meno può tollerare cesure invalicabili con il passato o manomissioni del profilo identitario. O davvero qualcuno immagina che saranno Renan e Internet a sostituire la calma, apollinea ragione di Vico?

(di Alessandro Giuli)

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