sabato 3 luglio 2010

Quale "purificazione" sarà mai possibile in Italia?


Alessandro Giuli, prendendo lo spunto dalla ristampa di un saggio di Luciano Lucci Chiarissi a vent’anni dalla sua morte (Il Foglio, 30 giugno), scrive un concetto che nessuno fino ad oggi aveva mai osato esporre: la necessità, per la nazione italiana, di doversi “purificare” del sangue dei vinti della guerra civile 1945-1945 e oltre, rifacendosi ad un ancestrale ricordo: l’aver chiamato gli ateniesi il sapiente Epimenide “affinché purificasse una città divenuta empia nel fratricidio”. E’ possibile, dunque, come scrive il vicedirettore, far che ciò accada nell’Italia del 2010: “risanare comunitariamente gli effetti della strage domestica (qualunque strage) per tornare cittadini della stessa polis, della stessa patria”? Appunto: “purificare”.

Mi pongo due domande. Se i tempi sono maturi perché questo sia possibile, e in che modo potrebbe essere possibile.
Sono trascorsi 65 anni da allora - diciamo tre generazioni? - eppure il passato continua a non passare. Per almeno un paio di motivi: il primo è che gli eredi ufficiali degli ex vinti hanno ammesso, per bocca dei loro legali rappresentanti, che “i vincitori avevano ragione” e che quindi gli sconfitti hanno fatto bene a venir sconfitti; il secondo è che gli eredi ufficiali del ex vincitori continuano considerarsi ancora il bene in Terra e quindi di non fare alcun passo in alcuna direzione. Dopo tutto quanto ormai si sa di quella lontana e tragica stagione, entrambe le posizioni appaiono incomprensibili, o meglio comprensibili soltanto alla luce di una ideologia che continua a prevalere su tutto e che ottenebra non solo il sentimento ma anche la ragione. Se ciò era comprensibile sino agli anni Sessanta, sino agli “anni di piombo” allorché le Brigate Rosse – è bene ricordarlo – presero le armi spesso loro consegnate da ex-partigiani per portare a termine una “Resistenza incompiuta”, per vendicare una “Resistenza tradita”, oggi il tutto sembra irragionevole.

Se ne sentono, se ne leggono e se ne vedono sintomi quotidiani. Ne cito alcuni delle ultime ore: su Indymedia si sono scatenate le iene che affermano, a proposito del povero Taricone, che “l’unico fascista buono è quello morto” e c’è chi scrive “di aver goduto come un porco” alla notizia; a Genova non si è potuto svolgere un convegno sulla sommossa del luglio 1960 per paura di disordini e ritorsioni da parte della sinistra extraparlamentare (ancora esiste): diciamo che è trascorso appena mezzo secolo da quegli avvenimenti; tra scrittori e critici letterari si sta scatenando in alcuni siti della Rete una polemica sulle opinioni del letterato di sinistra Andrea Cortellessa il quale per tacitare un suo critico che si cela dietro lo pseudonimo maoista di Wu Ming 1, non ha che tacciarlo di “fascista”, l’offesa definitiva che non ammette replica (e del resto, sempre su Indymedia non c’è stato or ora qualcuno che ha dato del fascista nientepopodimenoche a… Roberto Saviano?); dulcis in fundo la 74enne Dacia Maraini dalle colonne del Corriere della Sera (29 giugno) ha incitato i giovani a iscriversi all’Anpi perché “la resistenza non sia solo la memoria del passato ma pratica del presente”. E porta come prova un elenco di neo iscritti resistenziali Giuliano Montaldo (anni 80), Gustavo Zagrebelsky (anni 67), Margherita Hack (anni 88), Vincenzo Consolo (anni 77), Liliana Cavani (anni 77), Andrea Camilleri (anni 85), Mario Monicelli (anni 95), Lucio Villari (anni 77), Franca Rame (anni 81). C’è anche Dario Fo (anni 86), iscrittosi all’Anpi di certo per far dimenticare il suo passato di militare della Rsi. Dunque: resistere, resistere, resistere!

Se la situazione è questa come e quando potrà avvenire “il reciproco riconoscimento con il nemico” (scrive Giuli citando Luciano Lanna) o come, aggiunge il vicedirettore, sarà possibile “dare voce al sangue dei vinti abbracciando l’intero spettro delle ragioni dei contendenti”? Cosa pensino i superstiti familiari di quei numerosissimi vinti, lo ha raccontato Giampaolo Pansa nei suoi libri. E che essi siano ancora lì ad aspettare questa “purificazione” lo dice già il titolo del suo prossimo libro in uscita in autunno che sarà I vinti non dimenticano. La frase di Cesare Pavese citata da Lucci Chiarissi e ripresa da Giuli è quella famosissima e dimenticatissima: “Anche il vinto è qualcuno, dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare voce a questo sangue”. Ma “placare il sangue dei vinti” possono farlo solo ed esclusivamente i vincitori: i vinti, nei loro rappresentanti politici, dando ragione piena, assoluta, senza tentennamenti alle ragioni dei vincitori non lo hanno certo “placato”, né “dato voce”. Lo hanno puramente e semplicemente tradito, senza mostrare alcuna vergogna né ripensamento. Se la dovranno vedere con la loro coscienza, sempre che l’abbiano.

Come è dunque possibile – passo alla seconda domanda che mi sono posta – concretamente possibile questa “purificazione”? In una civiltà laica e secolarizzata come la nostra, che non è l’Atene del VI secolo a.C. quando si credeva negli dèi, nelle punizioni divine, nell’empietà, che si può fare se non un atto laico ma di grande simbolismo? E quale potrebbe mai essere? Potrebbe essere quello esplicitamente indicato nei giorni dopo lo scorso 25 aprile da Stefania Craxi, figlia di Bettino e sottosegretario dell’attuale governo, ma già invocato nel 2004 da Giampaolo Pansa in una intervista radiofonica al sottoscritto: nessuno se ne diede per inteso, silenzio assoluto, mentre per la Craxi sono piovute le invettive. E cioè: che una rappresentanza istituzionale il prossimo 25 aprile vada in quel di Piazzale Loreto, luogo della “macelleria messicana” come la definì Parri, e vi deponga una corona di fiori. Un atto di pietà umana, del riconoscimento degli orrori commessi dalla resistenza, un atto bestiale ascrivibile alla “lotta di liberazione”, non certo un “riconoscimento” o una “legittimazione” del fascismo, secondo quella che sarebbe un’ovvia accusa: questo le famiglie delle migliaia di caduti della Rsi, probabilmente nemmeno lo cercano.

I russi non hanno ammesso infine le colpe del massacro di Katyn? Di recente il neo premier britannico Cameron non ha ammesso le colpe della “domenica di sangue”? E non potrebbe il presidente della Repubblica Napolitano, ex comunista, e proprio per questo, avere il coraggio di concludere il suo settennato con un grande atto per cui passerebbe alla storia? Continuerò a difende la libertà anche dopo gli 85 anni, ha detto di recente. Deporre quella corona di fiori non sarebbe un atto di libertà anche nei confronti della sua stessa coscienza e a nome della coscienza della nazione tutta? Non sarebbe questo in fondo piccolo e semplice atto quel “risanare comunitariamente gli effetti della strage domestica per tornare cittadini della stessa polis, della stessa Patria”? Non chiediamo, anche se sarebbe opportuno, che il presidente della Repubblica sia accompagnato da tutte le altre tre alte cariche dello Stato, perché sicuramente una di esse, il presidente della Camera, per tener fede alle sue molte democratiche e definitive esternazioni, non accetterebbe. Risparmiamogli una figuraccia e magari una crisi istituzionale…

(di Gianfranco de Turris)

Nessun commento:

Posta un commento