La politica al tempo del colera
Il Caimano cade, sta per cadere, cadrà domattina, cadrà fra due giorni. È quel che giurano i tanti abituati a confondere i propri desideri con la realtà. Invece Silvio Berlusconi non cadrà per niente. Soprattutto perché non ha nessuna intenzione di cascare. È un suo ferreo proposito durare sino al 2013, ossia alla fine della legislatura. In quel momento terminerà pure il settennato di Giorgio Napolitano. E anche il più distratto degli italiani sa che il Cavaliere tenterà di arrivare al Quirinale. Il lettore del Bestiario non si stupisca. Non sono diventato, all’improvviso, un tifoso di Berlusconi. Devo ricordare che appena una ventina di giorni fa avevo suggerito a lui e a Umberto Bossi di dimettersi, se volevano salvare il centrodestra. Come immaginavo, il mio consiglio è finito nel cestino. A riprova che entrambi non hanno nessuna voglia di gettare la spugna. Pur sapendo che, per restare in sella, dovranno pagare un prezzo molto alto. E quale sia lo spiegherò nell’ultima parte di questo Bestiario.
Ormai siamo in molti a pensare che il Cavaliere durerà. Parlo di osservatori indipendenti, come tento di essere io. Per quel che mi riguarda, me lo fanno pensare alcuni segnali assai chiari. Primo fra tutti, il suo atteggiamento nei confronti di Gianfranco Fini. Il presidente della Camera, e cofondatore del Pdl, è diventato il nemico pubblico numero uno del Caimano. È inutile ricordare tutti i passaggi della sua guerriglia, quotidiana e incessante. Serve di più domandarsi perché Berlusconi rimandi di continuo la resa dei conti con Fini. E non lo cacci dal partito con tutta la truppa, grande o piccola che sia.
Le risposte sono diverse e spesso fantasiose. Il Cavaliere teme che Fini possieda delle carte per ricattarlo. Oppure ha paura delle rivelazioni sulla vita interna del Pdl che Fini, una volta espulso, potrebbe fare. È quanto mi hanno detto alcuni big del centrodestra. Ma io credo che il motivo vero sia un altro: nel rimandare lo show down con l’ex amico, Berlusconi ha pensato soprattutto al proprio futuro. E a una sequenza di eventi da far gelare il sangue. La riassumo così: uscita dei finiani, caduta del governo, lunga crisi, ricorso alle urne, sconfitta del centrodestra e fine della favola bella di Silvio.
Lo stesso quadro, sia pure rovesciato, forse se lo è proposto Fini. Potrebbe andarsene dal Pdl e fare un suo partito, gli uomini e i mezzi finanziari ce li ha. Potrebbe persino rimanere presidente della Camera. E dopo? Non gli resterebbe che una via d’uscita: cercare, con non poca fatica, di diventare il leader di un mostro a quattro teste, destra, centro, sinistra riformista, sinistra radicale. Con un programma di un solo punto: liberarsi del Caimano. Sembra facile, ma non è così. Fini non è uno sciocco e si sarà pur domandato che cosa accadrebbe se il Mostro Quadricipite dovesse perdere il confronto elettorale con il Cavaliere. Sarebbe la morte della propria carriera politica. Non gli resterebbe che fare l’istruttore di pesca subacquea.
È per questo che lo stallo ostile fra i due potrebbe durare a lungo, con esiti infausti per un Paese in crisi. Certo, lo stallo sarà pesante soprattutto per il Cavaliere. Alle prese con un impegno ciclopico: mettere mano alla crisi che sta distruggendo il Pdl. Berlusconi ha già dichiarato che sarà questo il compito delle sue vacanze d’agosto, tutte di lavoro. Ma neppure lui è il mago Zurlì, specialista in miracoli.
La tragica e fantozziana verità è che il Pdl è un morto che cammina. Non lo dice il Bestiario. Lo dicono con una frequenza allarmante osservatori di centrodestra. I due ultimi in ordine di tempo sono Luigi Amicone e Francesco Damato. Il primo è il direttore di Tempi, il settimanale vicino a Comunione e liberazione, e il suo lungo intervento ha un titolo schietto: “Come si rompe un partito”. Il secondo ha pubblicato su Il Tempo di Roma una geografia sconvolgente dei guai del Pdl, “Il caos in periferia”.
Che cosa è accaduto in questi mesi? La mia impressione è che, fino a quando Berlusconi è sembrato onnipotente, la crisi interna al Pdl sia rimasta nascosta alle spalle del trono. Poi, insieme ai primi incidenti giudiziari per due ministri e altre eccellenze, è emersa di colpo e con una rapidità sorprendente. Mi ha fatto pensare all’epidemia descritta in un grande romanzo di Gabriel García Márquez, “L’amore al tempo del colera”. Dapprima si ammala qualcuno, poi si ammalano tutti e infine tutti muoiono. Il colera ha già distrutto, o quasi, le tante sinistre. Adesso sta intaccando il centrodestra. E va all’assalto anche della Lega. I sintomi del male si vedono già, nelle liti fra i capi leghisti e nell’emergere del correntismo verde. Un guaio che Bossi e il suo staff negano, ma che sta sotto gli occhi di tutti.
Dobbiamo rallegrarcene? Penso proprio di no. Chi si frega le mani per il disastro del partito avversario, è un suicida. Tutte le democrazie parlamentari hanno un bisogno vitale di buona politica e di partiti sani. Altrimenti tutto cade nelle mani dei cosiddetti Poteri forti. Da noi ne esiste uno solo: la magistratura, un potere che sta diventando sovrano. Può fare bene, ma anche sbagliare.
Da cittadino, credo sia stato un errore pesante condannare il capo del Ros, il generale Giampaolo Ganzer. E sono contento che nel Partito democratico si sia alzata almeno una voce in suo aiuto: quella di Arturo Parisi, ministro della Difesa al tempo di Romano Prodi. Parisi è sardo, Ganzer carnico. Come diceva mia nonna, il sangue non è acqua.
(di Giampaolo Pansa)
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