L’articolo Un paese senza politica, pubblicato da Ernesto Galli della Loggia su “Il Corriere” del 7 scorso e che ha scatenato una serie a catena di reazioni, di critiche e di polemiche, mi ricorda la lapide che campeggia nel bel mezzo del Piazzale Michelangelo a Firenze e ch’è dedicata a chi ideò quel luogo unico al mondo, l’architetto Giuseppe Poggi: “Guardatevi intorno: questo è il suo monumento”.
Mi sembra che si potrebbe dire esattamente lo stesso dell’Italia di oggi: e forse magari di tutta l’Europa e di tutto il cosiddetto “Occidente”, perche la crisi c’è, è in atto, e non è soltanto finanziaria e socioeconomica oppure occupazionale. Visto che va tanto di moda parlare d’identità e di valori, diciamolo chiaro: è crisi, appunto, d’identità e di valori: e in ciò il nostro paese è, una volta tanto, all’avanguardia. Peccato solo che lo sia in un campo nel quale, viceversa, meglio sarebbe essere il fanalino di coda. Ma tant’è.
La crisi investe in pieno anche le istituzioni sulle quali fino a ieri si poteva contare, come la scuola e la famiglia; i casi di corruzione pubblica e privata si moltiplicano, e lo stesso si può dire della violenza; non esiste più qualcosa (nemmeno il calcio, dopo il flop ai Mondiali) da cui ci si senta rappresentati. E’ arcivero. Eppure ha straragione anche Cacciari, quando osserva replicando (“IL Corrriere”, 8.7.) che siamo pieni di personaggi e d’iniziative importanti e che si deve pur cominciar a parlare delle cose positive. Quali sarebbero? Principalmente una, che però è tutta da inventare: e qui, sul “Corriere” dell’8, Cacciari ed io – senza esserci messi d’accordo prima – abbiamo risposto allo stesso modo. Bisogna “aprire una fase costituente”. Con un gioco di parole, si potrebbe dire che il paese ha bisogno di un ri-costituente. Ma in che modo, in quali fasi, partendo da quali occasioni?
Cominciamo con il ricapitolare brevemente lo sfacelo nel quale ci troviamo. Proprio come nella lapide di Piazzale Michelangelo: guardiamoci intorno: questo è il monumento che ci siamo meritati, questa è l’Italia progressivamente costruita, o meglio distrutta, dalle generazioni grosso modo comprese fra i trentenni e i settantenni d’oggi, fra quella uscita dalla guerra e quella nata negli Anni Ottanta. Quelli nati prima, lasciamoli alla loro pensione con l’augurio di godersela (si fa per dire). A quelli di dopo, rivolgiamoci chiedendo perdono e incitandoli a far meglio di noi (lo dice un settantenne).
Quel che c’è, è il nostro monumento, pienamente meritato: ce lo siamo costruiti pezzo per pezzo. Dal ’45 ad oggi abbiamo lavorato – attraverso la ricostruzione postbellica, la “guerra fredda”, gli “anni di piombo”, il “riflusso”, “tangentopoli” e la “seconda repubblica imperfetta” – a distruggere sistematicamente, per quanto non in modo univoco e concorde, tutto quel che avevamo: cioè, appunto, l’identità e i valori, proprio le cose che ci mancano oggi e della mancanza delle quali andiamo di continuo alla ricerca dei responsabili.
Ma il punto è che gli italiani sono stati perfetti interpreti del Verbo moderno e occidentale fondato sulla distruzione nihilistica di tutto quel che non fosse affermazione dell’identità individuale e primato dell’economico e dell’utilitaristico: per lunghi anni, perfino lo studio e la cultura (“studia, ché ti fai una posizione…”) sono stati funzionalizzati anzi asserviti agli obiettivi dell’affermarsi individualmente, dell’esercitare diritti sempre più ampi (mettendo da parte il corrispettivo discorso dei doveri), nel guardare esclusivamente o comunque principalmente all’utile e al guadagno. La cultura? “E per che farne”? “A che serve”? Le tradizioni? Vecchiumi, orpelli, superstizioni. La solidarietà? “A queste cose, ci pensi lo stato” (ma al tempo stesso si evadevano le tasse). La morale? “Vietato vietare”; “il corpo è mio e lo gestisco io”. C’è da meravigliarsi se, con questi princìpi, abbiamo finito con il sentirci deboli e minacciati – noi, figli dell’opulenza e della società del benessere…- dagli extracomunitari che arrivano senza nulla, ma hanno la loro identità comunitaria, la loro religione, il loro senso della famiglia e della solidarietà: e abbiamo pensato che insidiassero la nostra identità, mentre altro non facevano, con la loro stessa presenza, che metterci davanti al nostro vuoto identitario autoprovocato?
La storia della società civile italiana somiglia all’apologo kantiano della colomba che, volando libera ma sentendo che l’aria le oppone resistenza, desidera un cielo senz’aria per librarsi senza fatica: e non sa che, in quel cielo vuoto, essa non solo non si sosterrebbe in volo, ma addirittura morrebbe. Abbiamo sostituito religione, patria, solidarietà, senso dello stato e dei doveri, con le “Isole dei Famosi”, i centri commerciali, i telefonini, lo “sballo” del sabato sera, il culto dell’avere, del possedere e dell’apparire anziche dell’essere, la schiavitu nei confronti dei capricci del proprio Ego alla liberta comunitaria ch’è fatta anzitutto di rispetto dei propri doveri e dei diritti altrui.
Ed ecco allora la validita della ricetta-Cacciari: “Cominciamo con il parlare delle cose positive”. Forse è vero che al peggio non c’e mai fondo: ma facciamo un atto di volontà forte, fingiamo di averlo davvero toccato. Quando si sbatte il sedere contro il fondo, c’è una sola cosa da fare: rimettersi in piedi. Acciaccati e doloranti, ma con la sensazione che ora si ricomincia e che questa sarà la volta buona.
Ci aspetta uno scorcio di legislatura, da ora al 2013. E ci aspetta un cambio della guardia, perché Berlusconi, nel bene e nel male, marcia verso gli ottant’anni ed è quindi al capolinea non della sua vita fisica (auguriamogli altri mille anni): ma di quella politica, sì. Il disagio che si registra di questi tempi del PdL, e che si riflette nell’incapacità propositiva e programmatica del Pd, si chiama anzitutto fine del berluskismo: se ne può pensare tutto il bene e/o tutto il male che vogliamo, ma il sistema del padre-padrone-padrino che pensa a tutto lui, che fa tutto lui, che dispone tutto lui, che compra-vende-comanda, è alle corde.
Abbiamo alcuni mesi di riflessione, da qui al ’13, per riorganizzarci le idee e per preparare nuovi quadri e nuovi strumenti. Se nel PdL sono sempre di più quelli che constatano che il partito-azienda non ha un domani e che il partito-plastica non serve a nulla, il succo di tutto è questo: che bisogna ricominciare a ridiscutere, re-imparare a stare insieme, riscoprire e rimodellare i valori desueti e costruirne di nuovi. Abbiamo bisogno di una riforma elettorale, perché il sistema del parlamento designato dalle segreterie ha abbassato la qualità dei nostri politici e ne ha accresciuto la corruttibilità; di un federalismo solidale, perché è inaccettabile un federalismo che distrugga l’Italia e mandi a remengo il Meridione; di una riforma fiscale che anziché fondarsi sui “tagli” riesca a battere l’evasione e restituisca non solo i redditi, ma anche i patrimoni alla loro necessaria funzione civica; di un nuovo patriottismo “italianista” ed “europeista”; di prospettive che ci aiutino a battere l’egoismo e a “risentirci popolo”; di una nuova primavera culturale che batta la TV-spazzatura, lo spettacolo-spazzatura, l’editoria-spazzatura; di un nuovo modo di far informazione mediatica, che per esempio ci restituisca la coscienza dei problemi sociali e di quelli di politica internazionale, scomparsi dalla nostra opinione pubblica.
Egoismo-individualismo, ignoranza-disinformazione, nichilismo-immoralismo: queste sono le nostre catene. Se ce ne liberiamo subito, è già tardi. Se indugiamo, siamo finiti.
(di Franco Cardini)
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