lunedì 9 agosto 2010

Aveva una casetta in Canadà

Qualcuno ricorderà una canzone di Carla Boni e Gino Latilla del 1957 che piaceva molto: “Aveva una casetta piccolina in Canadà, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà…”. Piaceva perché rappresentava il sogno di milioni di persone: possedere una casa, un appartamento, un posto decente dove abitare. Con il tempo, molti l’hanno realizzato. Ma per tanti resta una chimera. Questo spiega perché la casa sia ancora al primo posto nelle chiacchiere che si fanno in un gran numero di famiglie.

Se poi la casa di cui si parla riguarda un politico, le chiacchiere vanno a mille. L’ex ministro Scajola è diventata famoso non per il lavoro svolto, buono o cattivo che fosse. Ma per la faccenda dell’appartamento che un mister X gli avrebbe regalato, in tutto o in parte. Lo stesso vale per Gianfranco Fini, il presidente della Camera. Ormai anche dal parrucchiere le signore parlano di lui, della casa di Montecarlo, del cognato che ci vive, del modo singolare in cui è stata acquisita, poi venduta, poi rivenduta, poi affittata. Mi hanno raccontato che un signora, nel farsi la piega, domandava: “Ma che cosa sarà questo off shore? Un nuovo modello di reggiseno?”.

Naturalmente è possibile che Fini non sappia nulla dell’appartamento di Montecarlo. E che sia finito sui giornali soltanto perché ha divorziato da Silvio Berlusconi. Scriviamo sempre che il garantismo è un pilastro della società liberale. Anche se spesso su questo pilastro molti ci fanno i loro bisogni. Ma l’etica ci impone di essere garantisti nei confronti di tutti. Anche di un politico importante come Fini, la terza carica dello Stato. Che per difendersi ha molti più mezzi dell’uomo della strada senza potere.

Il guaio è che Fini non parla, non spiega, non dice una sillaba per ribattere alla valanga di parole che i media stanno scaraventando sulla faccenda di Montecarlo e, di riflesso, su di lui. È il primo aspetto paradossale di questa storia. Fini non ha mai amato il silenzio. Soltanto negli ultimi mesi, per non andare più lontano nel tempo, ha esternato di continuo, quasi tutti i giorni. Non si poteva aprire un giornale o accendere la tivù senza inciampare in una dichiarazione del presidente della Camera. Pensate alla tortura inflitta all’italiano qualunque. Ma non appena è emersa la storia di Montecarlo, Fini è diventato il muto di Montecitorio. Almeno sino al momento nel quale scrivo questa puntata del Bestiario: la mattina di sabato 7 agosto 2010.

C’è un leader politico che gli ha rimproverato di essersi tagliata la lingua. È Antonio Di Pietro, un maestro nell’avvalersi del diritto di parola. In due interviste al Riformista e a Libero, Tonino ha detto: «Per uscirne, Fini può fare una sola cosa: portare i documenti all’opinione pubblica, prima che lo faccia la magistratura».

Mentre Fini taceva, hanno parlato altri politici. Qui ne citerò tre. Il primo non mi sento di metterlo in croce perché è una signora con molti obblighi: Flavia Perina. Il suo vincolo più forte deriva dal fatto che dirige il quotidiano del futuristi finiani, il Secolo d’Italia. Per questo ha definito “dossieraggio” le inchieste dei giornali sulla casetta di Montecarlo. Sostenendo che “la lotta politica è regredita come ai tempi di Mino Pecorelli”. Ma che cosa poteva dire di diverso, la gentile Perina?

Più strambe sono le dichiarazioni di altri della casta. Pier Ferdinando Casini ha ruggito che le inchieste dei giornali su Fini sono “squadrismo mediatico” o, secondo un’altra versione, “squadrismo intimidatorio”. Due parole che coprono Casini di ridicolo. Siccome vuole fare il terzo polo con Fini, il capo dell’Udc si è messo a copiare il lessico del Cavaliere. Sia bocciato e ripeta l’anno.

Un altro da bocciare è un politico del Partito democratico, Luigi Zanda, vice capogruppo al Senato. Lui si è indignato per “l’uso della mazza ferrata giornalistica, editoriale e televisiva contro gli avversari del presidente del Consiglio”. Due errori da matita blu in un piccolo bla bla. Il primo è che la faccenda di Montecarlo ormai sta su tutte le gazzette e i tigì, anche su quelli che sono nemici giurati del Caimano. Il secondo riguarda la vecchia professione di Zanda. Quando era il segretario generale del gruppo Espresso-Repubblica si congratulava vivamente per le nostre inchieste su Tizio e su Caio. E non ci ha mai considerato dei mazzieri, bensì campioni del giornalismo investigativo.

Uno che non è da bocciare, bensì da compiangere con simpatia è Benedetto Della Vedova, vice capogruppo dei deputati futuristi. Da bravo valtellinese, si è messo lo zaino da battaglia. E va in tivù a spiegare l’arcano di Futuro e Libertà. Ossia a sostenere che i finiani restano nella maggioranza di centro-destra, accanto al Caimano, e non vanno con le opposizioni. Lo dice con garbo, da vero signore. Senza rendersi conto di accrescere la quota di grottesco che sprigiona dallo scisma di Fini.

Il grottesco aumenterà a dismisura quando inizieranno le manovre per le prossime elezioni. Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha già proposto di costituire un Grande Esercito di Liberazione per liquidare il Cavaliere. Ma leggerlo su Repubblica e ascoltarlo alla tivù, ti suggerisce una previsione sola. Se finirà così, vincerà di nuovo Berlusconi.

E se è vero che il premier si prepara a campare sino alla bellezza di 120 anni, molti non ne vedranno mai la caduta. A cominciare da me, che me ne andrò al Creatore senza poter sapere come sarà l’Italia di allora. Posso aggiungere per fortuna? Sì, l’ho aggiunto.

(di Giampaolo Pansa)

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