domenica 8 agosto 2010

Gianfranco, il fu-turista subacqueo


Ma se non ci fosse stato Berlusconi a sdoganarli, Fini e i missini starebbero ancora isolati, ai margini, nel sottoscala, nelle fogne? Non mi intendo di patafisica, cioè di storia scritta con i se e perciò non rispondo alla domanda. Mi accontento di guardare alla realtà. So che il Msi, piccolo, fiero e sterile partito di opposizione nostalgica, si stava avviando dopo Almirante a un declino inarrestabile, se non fosse esplosa l’Italia agli inizi del ’90. Il Msi era già stato sdoganato due volte prima di Berlusconi; negli anni Ottanta da Craxi che incontrò prima Almirante, verso cui ebbe espressioni di diffidente stima, e poi il neosegretario Fini, di cui invece descrisse la pochezza, anzi l’inconsistenza. E ai primi anni Novanta da Cossiga che, tentato dall’idea gollista di una Nuova Repubblica, rimise in gioco i missini considerandoli interlocutori. Il Msi vegetava ai margini della politica italiana quando scoppiò Mani pulite, implose la Dc tra Cossiga, Orlando e Segni e venne fuori dall’onda referendaria la riforma elettorale.

Andava sui giornali grazie all’estro dell’addetto stampa di Fini, il rustico Francesco Storace. Nel crollo della prima Repubblica, il Msi apparve come un partito dalle mani pulite o meglio delle mani intonse, perché mai usate per governare, ma solo per saluti romani e qualche scazzottata. Il Msi non aveva mai amministrato niente, o quasi; i suoi militanti erano credenti e brave persone, gran parte dei suoi parlamentari erano solo oratori, vergini di potere. Insomma aveva la fedina pulita, apologie di fascismo a parte. Fu così che Fini si trovò investito a candidarsi sindaco a Roma insieme alla Mussolini che si candidava a Napoli. Esitava, lo incoraggiammo, una volta gli telefonai per spingerlo a candidarsi dopo che la Dc di Martinazzoli aveva rifiutato di allearsi col Msi per sostenere Buttiglione o altri. Fini conseguì una gloriosa sconfitta contro il suo nuovo alleato Rutelli, come la Mussolini contro Bassolino. E al ballottaggio, Berlusconi ancora imprenditore, si schierò apertamente con lui. No, lo sdoganamento di Berlusconi non fu la svolta, anche se era la prima volta che uno dei più importanti personaggi dell’imprenditoria dichiarava pubblicamente di votare per il leader del Msi. La vera chiamata in paradiso per il Msi non fu quella; fu quando Berlusconi scese in campo, inserì nel gioco politico la destra e la coalizzò con la Lega e con gli ex Dc di Casini. Quello fu il miracolo per Fini e il suo partito; da soli non sarebbero mai riusciti a compierlo.

Quell’alleanza fu una proposta che avevo lanciato mesi prima su L'Italia settimanale, quando Berlusconi ancora non c’era. Ricordo che chiesi a Vittorio Feltri se condivideva questa idea e se ci scriveva un pezzo; e lui scrisse un articolo che intitolai «Se cani e gatti si alleassero», figurando l’alleanza tra Lega e Msi. Feltri continuò a scriverne sull’Indipendente. La stessa proposta lanciammo a Roma con Feltri, Fisichella e Selva in un convegno della Fondazione Italia. Dopo venne la discesa in campo di Berlusconi a trasformare un’idea in un’alleanza. I missi dominici dell’operazione furono soprattutto Letta e Tatarella, che stava lavorando per il nuovo partito (un altro missino ebbe un ruolo importante nella nascita di Forza Italia: Mimmo Mennitti). E con l’adesione di Fisichella, Fiori, Selva e altri, prese corpo An. Fini arrivò a cose fatte, con tempismo e abilità. Ma solo due anni prima pensava ancora che il richiamo a Mussolini potesse consentire al Msi di vivere con una manciata di parlamentari. Da segretario del Msi e da oppositore a Rauti, Fini era disposto a tutto per campare, perfino a sostenere Saddam Hussein, andando in Irak al traino di Le Pen.

L’organo finiano mi rinfaccia di aver tratteggiato in un mio libro un quadretto ironico e affettuoso di una sezione missina del Sud, raccontando la generosità e lo squallore naïf delle sezioni di quel tempo. Era una pagina narrativa e non politica, di colore e sentimenti, lievemente caricaturale anche se rispecchiava un’esperienza vera di vita; ma non penso affatto che tutti i missini si possano ridurre a quel rozzo campionario di zoologia. Ci fu chi ci rimise la pelle e onore a loro; ci fu chi ci rimise soldi e lavoro, altro che Montecitorio o Montecarlo; e c’era anche gente di qualità. Di solito, però, non se la passavano bene; erano all’opposizione interna, come Beppe Niccolai, o espulsi, come Marco Tarchi. La nomenklatura del Msi, con poche eccezioni, restò impenetrabile alla cultura e alle idee, diffidente verso gli eretici e gli innovatori, ostile a ogni iniziativa editoriale e culturale, di nuova destra o verso nuove aperture. Se portavo le mie idee su la Repubblica o su l’Unità, se esortavo a lasciare il fascismo alla storia e ad aprirsi ad alleanze nuove, se dialogavo con Cacciari o con i socialisti tricolore, passavo ai loro occhi per venduto e traditore. Quanti frustrati abitanti delle fogne missine, oggi finiani, la pensavano così... Appena poterono, i futuristi libertari di oggi, riuscirono già ai tempi di An a far chiudere l’Italia settimanale, cacciando prima il suo direttore. Ma, prima di An, quello era il Msi finiano, diffidente verso le novità, rancoroso e nostalgico; un passo indietro anche rispetto ai rautiani, o rispetto al Msi di Michelini e De Marzio. Che Almirante e Romualdi fossero ancora immersi nel neofascismo era comprensibile, era la loro biografia a chiamarli a Salò; ma che lo fosse un giovane ignaro e postfascista come Fini è metà assurdo e metà furbesco. Poi, a un certo punto, con una giravolta geniale di cui presto darò la mia versione, Fini si liberò del ruolo di vice di Berlusconi per aspirare al ruolo di vice di Casini (i rapporti di forza parlano chiaro). È commovente lo sforzo surreale di alcuni finiani di dare una linea culturale e una nobiltà ideale a un fatto personale, immaginando che si tratti di nuova destra. Futurismo? Sì, fu turismo. Subacqueo e fai-da-te.

(di Marcello Veneziani)

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