È impressionante l’impasto di retorica, narcisismo e faziosità che si è condensato nei commenti e nelle reazioni pubbliche alla morte di Francesco Cossiga. Incapace di raccontare e giudicare uno dei suoi più illustri e controversi protagonisti, è come se l’Italia ufficiale (ma anche quella anarchica e tumultuosa che si muove nell’universo parallelo dei siti online) si fosse dimostrata incapace di raccontare e giudicare se stessa. Un diluvio di parole magniloquenti ha sommerso una figura che suscitava consensi, ma anche conflitti. Un rincorrersi di stereotipi ha appiattito e svilito, facendone un santino o un ritratto demoniaco, il ruolo che Cossiga ha incarnato per decenni. L’ennesima occasione perduta per riflettere su se stessi. Sorvolando sul coro incresciosamente protagonistico dei mille «mi disse», «mi svegliò», «mi confessò» (è spuntato anche, perla rara, un «seduti a tavola, mi guardò a lungo») che in Italia fiorisce contagiosamente all’indomani di una morte eccellente, si è celebrato il rito degli ammiccamenti, dei pregiudizi, degli arruolamenti postumi di un irregolare purissimo della politica italiana. La sua irregolarità fu ridotta in vita a una manifestazione di bizzarria e di incontrollata umoralità. E tale sembra rimasta anche post mortem, sebbene mitigata dal rispetto che si deve ai grandi della storia italiana che scompaiono. In compenso si è scatenata l’ostilità chiassosa e irriducibile di chi ha costruito attorno alla figura di Cossiga un alone di tenebre e di segreti inconfessabili. Come se Cossiga fosse nella migliore delle ipotesi il depositario omertoso dei misteri che hanno insanguinato l’Italia e, nella peggiore, il burattinaio di ogni stragismo, di ogni terrorismo, di ogni nefandezza compiuta nella storia repubblicana.
Un’ostilità che fa da contrappeso alle spericolate retoriche celebrative, recitate anche, anzi soprattutto, da chi in vita fu feroce avversario politico di Francesco Cossiga, fino a chiederne, ai tempi delle esternazioni e delle «picconate» dal Quirinale, l’«impeachment» e la messa sotto accusa per tradimento della Costituzione. È vero, succede spesso che quando se ne va un protagonista così ingombrante della scena pubblica, la commemorazione prenda il posto dell’analisi e della riflessione. Ma succede raramente con queste dimensioni e anche, spiace dirlo, con dosi così massicce di ipocrisia e doppiezza. Le cose aspre che Cossiga diceva sulla magistratura, sul sistema politico, sui partiti vecchi e nuovi, sulle ideologie che li hanno sorretti, sugli uomini e sulle donne che ne impersonavano il destino, e anche sul ruolo dei cristiani nella politica italiana sono state semplicemente cancellate nei commenti e nei discorsi pur commossi dopo la morte di quel politico anomalo, di quell’intellettuale irrequieto e, appunto, irregolare. Sono rimasti invece i pregiudizi e i luoghi comuni di chi è assolutamente convinto che Cossiga fosse una figura detestabile, destinata a portarsi nella tomba i segreti più conturbanti e destabilizzanti della storia italiana. L’omaggio formale e l’invettiva, la mummificazione precoce o l’odio verso un uomo e un politico che sapeva raccontare molte più verità dei suoi più felpati e prudenti colleghi: ancora una volta l’Italia ha mostrato il suo lato peggiore porgendo il suo ultimo saluto a Francesco Cossiga. Un patriota che però non amava il «coro» italiano e ha voluto lasciarci restando solo con il suo inno della Brigata Sassari.
(di Pierluigi Battista)
(di Pierluigi Battista)
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