Che cosa vogliono i pensatori finianì? Passare dalla crisi dei valori al valore della crisi, mobilitare le energie degli esuli in Patria, ricombinare le identità di destra e di sinistra per amalgamarle in un ethos pubblico costituzionalmente corretto. Quindi racchiudere gli affiuenti in un bacino indifferenziato dal quale attingeredi volta in volta a seconda delle esigenze. Lo schema della Nuova destra, seppur rivisitato, è troppo chiaro per non rilevarlo subito, leggendo il “manifesto di ottobre per una rinascita della res publica e per un nuovo impegno politico-culturale” concepito dagli intellettuali finianì e già sottoscritto da numerosi colleghi di area progressista (da Maurizio Calvesi a Fiorello Cortiana, passando per Ermete Realacci, Giacomo Marramao, Nadia Fusini e Marco Müller).
Altri se ne aggiungeranno, attratti verosimilmente dalla genericità dell’impegno, dalla vaghezza ambiziosa dei contenuti – “accrescere il capitale sociale rappresentato dall’intelligenza e dalle virtù civili italiane” – e dal tocco inequivocabilmente modernista dell’iniziativa. La proiezione verso il domani – sia questa declinata secondo la banale “nostalgia del futuro” di almirantiana memoria, ovvero declamata con più genuina protensione verso una meta a venire che non contraddica il punto di provenienza – e un magnete destinato a raccogliere più consensi a sinistra che a destra. E gli intellettuali finiani non a caso si sono stanziati lungo la linea di frontiera oltre la quale una scappatella nel terreno altrui rende più di quanto possa costare in termini di coerenza.
Ciò detto resta lecito l’nterrogativo: da quale “linea di tiro” la Destra nuova di Fini scaglia le sue proposte e chiede di sottoscriverle? Non più quella di Alleanza nazionale/Pdl, bipolarista, conservatrice nei princìpi e liberista a intermittenza nell’amministrazione della cosa pubblica. Non ancora quella di un partito, Futuro e libertà, alla ricerca di una collocazione nel planisfero del post berlusconismo. Le citazioni dI Calamandrei e Hannah Arendt sulla libertà e sulla partecipazione in politica, ben evidenti nel manifesto degli ottobristi, non contraddicono l’impressione che i finiani puntino molto sull’inafferrabilità.
La vecchia Nuova destra di Tarchi e De Benoist si giaceva con le proprie certezze ereditate dall’alto Novecento: la Rivoluzione conservatrice, o modernismo reazionario, l’ecologismo à la Walter Darrè, l’organicismoo mitteleuopeo, le fantasticherie medievistiche di Tolkien. La Destra nuova dì Fini tende invece a rifuggire il fermo immagine sul proprìo arsenale di persuasione di massa, si limita a piantare il vessillo della futurolatria combinata con una imprecisata istanza di libertà. L’analisi del presente permeato da corruzione e corrosione è impeccabile ma l’antipassatismo non basta a se stesso nemmeno quando lo si nobiliti spolverandolo con il freddo agonismo delle idee (peraltro tratto dalla lezione storica di Machiavelli).
Tanto basta per liquidare l’operazione degli ottobristi? Evidentemente no, altrimenti sarebbe stata sufficiente una freddura. Il vantaggio degli ottobristi, che è anche la promessa di una durevolezza per il loro impegno, è nel calco negativo rappresentato dalla vacuità circostante alla loro intemerata. La sincope del bipolarismo di tipo anglosassone (trionfo della logica aristotelica: non si può essere al tempo stesso “A ” e “non-A“) e l’enfantillage intellettuale alimentato dai mezzi d’informazione e d’intrattenimento di massa, così come dai più paludati organi della cultura un tempo egemone (da Internet ad Alfabeta.2), incoraggiano il regresso verso un indistinto commercializzabile come ritorno al futuro.
(di Alessandro Giuli)
Altri se ne aggiungeranno, attratti verosimilmente dalla genericità dell’impegno, dalla vaghezza ambiziosa dei contenuti – “accrescere il capitale sociale rappresentato dall’intelligenza e dalle virtù civili italiane” – e dal tocco inequivocabilmente modernista dell’iniziativa. La proiezione verso il domani – sia questa declinata secondo la banale “nostalgia del futuro” di almirantiana memoria, ovvero declamata con più genuina protensione verso una meta a venire che non contraddica il punto di provenienza – e un magnete destinato a raccogliere più consensi a sinistra che a destra. E gli intellettuali finiani non a caso si sono stanziati lungo la linea di frontiera oltre la quale una scappatella nel terreno altrui rende più di quanto possa costare in termini di coerenza.
Ciò detto resta lecito l’nterrogativo: da quale “linea di tiro” la Destra nuova di Fini scaglia le sue proposte e chiede di sottoscriverle? Non più quella di Alleanza nazionale/Pdl, bipolarista, conservatrice nei princìpi e liberista a intermittenza nell’amministrazione della cosa pubblica. Non ancora quella di un partito, Futuro e libertà, alla ricerca di una collocazione nel planisfero del post berlusconismo. Le citazioni dI Calamandrei e Hannah Arendt sulla libertà e sulla partecipazione in politica, ben evidenti nel manifesto degli ottobristi, non contraddicono l’impressione che i finiani puntino molto sull’inafferrabilità.
La vecchia Nuova destra di Tarchi e De Benoist si giaceva con le proprie certezze ereditate dall’alto Novecento: la Rivoluzione conservatrice, o modernismo reazionario, l’ecologismo à la Walter Darrè, l’organicismoo mitteleuopeo, le fantasticherie medievistiche di Tolkien. La Destra nuova dì Fini tende invece a rifuggire il fermo immagine sul proprìo arsenale di persuasione di massa, si limita a piantare il vessillo della futurolatria combinata con una imprecisata istanza di libertà. L’analisi del presente permeato da corruzione e corrosione è impeccabile ma l’antipassatismo non basta a se stesso nemmeno quando lo si nobiliti spolverandolo con il freddo agonismo delle idee (peraltro tratto dalla lezione storica di Machiavelli).
Tanto basta per liquidare l’operazione degli ottobristi? Evidentemente no, altrimenti sarebbe stata sufficiente una freddura. Il vantaggio degli ottobristi, che è anche la promessa di una durevolezza per il loro impegno, è nel calco negativo rappresentato dalla vacuità circostante alla loro intemerata. La sincope del bipolarismo di tipo anglosassone (trionfo della logica aristotelica: non si può essere al tempo stesso “A ” e “non-A“) e l’enfantillage intellettuale alimentato dai mezzi d’informazione e d’intrattenimento di massa, così come dai più paludati organi della cultura un tempo egemone (da Internet ad Alfabeta.2), incoraggiano il regresso verso un indistinto commercializzabile come ritorno al futuro.
(di Alessandro Giuli)
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