Non mi sembra che in una democrazia occidentale sia mai accaduto che il presidente di un ramo del Parlamento abbia chiesto le dimissioni del Presidente del Consiglio dei ministri, condizionando la vita della legislatura ad un tale atto di gratuità politica immotivato e illegittimo sotto il profilo costituzionale. Anche questo ci è toccato di vedere nel crepuscolo dello Stato di diritto.
Gianfranco Fini si è così guadagnato il non invidiabile primato di aver dato il ben servito al premier nelle sue funzioni, inedite per l'Italia, di capo partito e di presidente della Camera. Eccepiranno a lungo gli studiosi delle istituzioni su questa anomalia, ma servirà a poco. Il leader di Fli, senza mostrare neppure un'ombra di dubbio, ha sostanzialmente provocato la crisi di governo e, probabilmente, la fine di un'esperienza politica. Poco male, si potrebbe dire, se non fosse che la sua posizione istituzionale ben altro comportamento avrebbe dovuto consigliargli.
Fini, che negli ultimi tempi delle regole costituzionali si era autonominato "custode" inflessibile, avendo in animo di "dimissionare" il premier avrebbe dovuto dimettersi lui stesso un minuto prima. Occupando ancora il piano nobile di Montecitorio, si sarebbe dovuto, al contrario, astenere dal fare quel che normalmente fa un qualsiasi comiziante. Purtroppo per lui il risentimento ed il rancore lo hanno condizionato a tal punto da fargli assumere le sembianze non di un leader europeo, come vanno dicendo i suoi nuovi discepoli, ma di un demagogo che non ha evidentemente compreso la differenza che passa tra l'occupare una carica per definizione super partes e l'aver promosso prima una scissione parlamentare e poi essersi vestito dei panni dell'oppositore principale del partito nelle cui file era stato eletto due anni e mezzo fa.
Coloro che nei mesi scorsi ne reclamavano le dimissioni, giudicando improprio il suo attivismo politico allora avevano ragione (mentre chi scrive lo negava, forse perché memore di altre stagioni politiche che avevano visto Fini ineccepibile protagonista). Adesso che tutto si è compiuto non si può che concludere amaramente su una vicenda che lancia ombre sulla correttezza istituzionale della terza carica dello Stato e certo approfondisce un solco in un centrodestra che non assomiglierà mai più a se stesso.
Quanto poi al ministro, al vice-ministro ed ai due sottosegretari di Fli che dal palco di Bastia Umbra hanno rimesso nelle mani di Fini i loro mandati, non sappiamo se scompisciarci dalle risate oppure chiuderci in un doloroso silenzio. E' possibile che nessuno abbia fatto notare alle loro eccellenze che neppure nel peggiore regime partitocratico una cosa del genere si giustifica? Tra gli applausi hanno certificato, senza rendersene conto, di dipendere da un leader partitico, alla faccia della democrazia e del rispetto della Costituzione. I quattro "governanti" avrebbero quantomeno dovuto sospettare che avendo giurato uno nelle mai del capo dello Stato e gli altri in quelle del presidente del Consiglio è a loro che vanno date le dimissioni che, naturalmente, non si minacciano per elementare rispetto delle funzioni stesse. Se questo è il futuro e la libertà della democrazia italiana…
(di Gennaro Malgieri)
Gianfranco Fini si è così guadagnato il non invidiabile primato di aver dato il ben servito al premier nelle sue funzioni, inedite per l'Italia, di capo partito e di presidente della Camera. Eccepiranno a lungo gli studiosi delle istituzioni su questa anomalia, ma servirà a poco. Il leader di Fli, senza mostrare neppure un'ombra di dubbio, ha sostanzialmente provocato la crisi di governo e, probabilmente, la fine di un'esperienza politica. Poco male, si potrebbe dire, se non fosse che la sua posizione istituzionale ben altro comportamento avrebbe dovuto consigliargli.
Fini, che negli ultimi tempi delle regole costituzionali si era autonominato "custode" inflessibile, avendo in animo di "dimissionare" il premier avrebbe dovuto dimettersi lui stesso un minuto prima. Occupando ancora il piano nobile di Montecitorio, si sarebbe dovuto, al contrario, astenere dal fare quel che normalmente fa un qualsiasi comiziante. Purtroppo per lui il risentimento ed il rancore lo hanno condizionato a tal punto da fargli assumere le sembianze non di un leader europeo, come vanno dicendo i suoi nuovi discepoli, ma di un demagogo che non ha evidentemente compreso la differenza che passa tra l'occupare una carica per definizione super partes e l'aver promosso prima una scissione parlamentare e poi essersi vestito dei panni dell'oppositore principale del partito nelle cui file era stato eletto due anni e mezzo fa.
Coloro che nei mesi scorsi ne reclamavano le dimissioni, giudicando improprio il suo attivismo politico allora avevano ragione (mentre chi scrive lo negava, forse perché memore di altre stagioni politiche che avevano visto Fini ineccepibile protagonista). Adesso che tutto si è compiuto non si può che concludere amaramente su una vicenda che lancia ombre sulla correttezza istituzionale della terza carica dello Stato e certo approfondisce un solco in un centrodestra che non assomiglierà mai più a se stesso.
Quanto poi al ministro, al vice-ministro ed ai due sottosegretari di Fli che dal palco di Bastia Umbra hanno rimesso nelle mani di Fini i loro mandati, non sappiamo se scompisciarci dalle risate oppure chiuderci in un doloroso silenzio. E' possibile che nessuno abbia fatto notare alle loro eccellenze che neppure nel peggiore regime partitocratico una cosa del genere si giustifica? Tra gli applausi hanno certificato, senza rendersene conto, di dipendere da un leader partitico, alla faccia della democrazia e del rispetto della Costituzione. I quattro "governanti" avrebbero quantomeno dovuto sospettare che avendo giurato uno nelle mai del capo dello Stato e gli altri in quelle del presidente del Consiglio è a loro che vanno date le dimissioni che, naturalmente, non si minacciano per elementare rispetto delle funzioni stesse. Se questo è il futuro e la libertà della democrazia italiana…
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