E’ una potente trasmissione televisiva che si segue a bocca aperta ma respirando dal naso. Una messa cantata dove ci s’immerge mondandosi dei propri peccati, tenendosi per mano, mettendosi a posto la coscienza perché, insomma, se ci si fa novero tra i dieci milioni di ascoltatori di “Vieni via con me” – anche se di fiato corto, anche se arcitaliani – a ciascuno di noi è data l’ebbrezza di specchiarsi nella parte giusta, nella schiera vittoriosa, tra gli angeli del culturalismo e della virtù civile. E poco male se poi, ognuno di noi, tra i dotati di malizia e di corroborante cinismo, dovremmo farlo finire a fischi e a piriti (leggasi scoregge) questo Te Deum, giusto come ha fatto Umberto Bossi col suo pernacchio, perché – si sa – ci vuole un poco di vento in chiesa, altro che, ma non al punto di spegnere tutte le candele della libertà mentale.
Ogni pernacchio ha una stretta eco con lo spernacchiato, sono sempre le belle bandiere ad eccitare le pulsioni più grevi, Saviano è anche il mio labaro, onusto di medaglie, ma neppure si può fare, come ha fatto il Giornale, di lanciare in prima pagina una campagna contro Roberto Saviano e manco stampare in bella evidenza la vera notizia: l’arresto di Antonio Iovine, il camorrista.
Fare quegli ascolti che ogni volta si leggono come l’effetto di un formicaio in assedio alla torta del potere ha la funzione di un lavacro di giustizia. Purtroppo lo stesso arresto di Iovine, in questi tempi così malati di odio, grazie alla raffinata manipolazione di quelli col bicchiere in mano (quelli “dell’egemonia culturale, entrando da sinistra”, come giustamente se ne lamenta Ezio Mauro) è risultato quasi quasi ambiguo, una sorta di stroncatura di “Gomorra”, un po’ come la sparatoria sul pianerottolo di Maurizio Belpietro. Ci fosse stata una pistolettata davanti alla porta di Barbara Spinelli, l’Italia civile sarebbe ancora oggi mobilitata, specchiata di sicuro nel trionfante formicaio, affamato di legalità e giustizia. Ma purtroppo è solo la santificazione della geniale banalità quando si fa spettacolo. Questo è il “Vieni via con me” e Fini e Bersani, infatti, ridotti nel ruolo di “portavalori” (copyright di Aldo Grasso), messi sotto l’occhio di bue del narcisismo con l’elenco dei rispettivi valori, non sono la novità della destra e della sinistra, sono soltanto la versione poetica e furba del risotto cucinato da Massimo D’Alema nel salotto di Bruno Vespa.
La manipolazione è sofisticata per definizione e leggere in tre righe tre Curzio Maltese che schiera un giornale contro la critica laureata (Aldo Grasso, il nostro eroe), rea questa stessa critica di aver laurea e titoli di poter discutere della trasmissione-missione, quasi quasi c’indispettisce perché in quelle tre righe Maltese ci ruba il mestiere: “Chi se ne frega della critica laureata”, dice. Magari non ha la rude e futuristica irruenza degli squadristi ma, ci chiediamo, come dovrebbe essere la critica, analfabeta? Solletica già da sinistra, pur con bicchiere in mano, una deriva plebiscitaria? A forza di mettersi nel sacco l’incolpevole Saviano, bisogna pur dirlo.
Ecco, si sono ridotti a replicare Mario Scelba e le sue invettive contro il culturame. Proprio un brivido. E tutto questo per festeggiare la morte del berlusconismo televisivo.
Farsi presepe in tre, poi – perché sono tre i veri protagonisti della funzione, ovvero Loris Mazzetti, Roberto Saviano e Fabio Fazio – replica in automatico la santa trinità di san Giuseppe, la Madonna e il Bambinello. A poco a poco, però, nella morte del berlusconismo televisivo, si sfiora la sceneggiata con tanto di Isso, Issa e o’ Malamente. E tutta quella gioiosa ascesi nel paradiso del successo cui nessun monumento dell’immaginario collettivo democratico si nega (sia esso Abbado, sia Benigni, sia gli Avion Travel) fa precipitare tutto nella cara commedia all’italiana. Ed è perciò che tutti e tre ben s’individuano nei ruoli. Rispettivamente un Furbo, un Santo e un Paraculo.
Il furbo è Loris Mazzetti, capostruttura di Raitre, furbissimo e bravissimo, cui la sciagurata iniziativa dell’azienda Rai di volerlo licenziare gli porterà in dote un immediato reintegro e, di conseguenza, un assoluto potere extraterritoriale derivato dalla magistratura. E senza tema di dover rispondere all’azienda, al suo stesso editore, a qualsivoglia dirigenza Rai perché il grande furbo, una volta riportato in sella da un giudice, potrà sempre fare ostensione di certificato martirio. Avrà voglia Mauro Masi di rimetterlo in riga. Solito tempo perso o, al più, una moltiplicazione di pubblicità che il furbo Mazzetti metterà all’incasso. E tra i ricavi non mancheranno di certo le preziose gocce di quella pioggia di scomuniche asperse da Avvenire dopo le esibizioni di don Gallo (coautore con lo stesso Mazzetti di un libro edito da Aliberti), additato quale “servo narciso” dal giornale dei vescovi ma considerato pezzo forte della macchinazione dove la radice forte è sempre furba, santa e paracula.
Il paraculo è Fabio Fazio di cui abbiamo già dato, tutto si sa ed è bravissimo nel suo essere il monumento della vera Italia. La nazione tutta, infatti, gli assomiglia. Anche nel suo essere di sinistra è molto italiano. Lui è quell’italiano migliore, quello che si fa cittadino consapevole, ceto medio con le riflessioni, borghese dai principi solidi e ancor più saldi convincimenti, insomma: uno che si para sempre il culo. Basti pensare alla disperazione di Roberto Zaccaria, ai tempi della sua stagione in Rai, quando doveva togliere dalle reti un eventuale Piero Chiambretti per non urtare la solitaria ascesi di Fabio Fazio (terrorizzato da un probabile arrivo di Antonio Ricci) e magari nel frattempo alzare alti lai per la prevaricazione di Bruno Vespa, egemone in tutti i giorni della settimana su Raiuno. Tutto si sa di Fazio, è vero, ma solo in ristretta cerchia esoterica, quella dei detrattori, esclusi dalla santa messa penitenziale dei dieci milioni di ascoltatori, ma poiché non è reato augurargli di finire un giorno nella scuderia di Lele Mora, glielo auguriamo caldamente perché – e stiamo usando una parola scelta da Ezio Mauro per Saviano – adesso è proprio “troppo”. Ma nel caso specifico troppo paraculo.
Santino nelle mani del Furbo e del Paraculo è Roberto Saviano. E a lui vanno le preghiere nostre, la mia in particolare, adesso che ha scelto di fare la calata agli inferi, quelli della telegenia, specie quella conformista. I giornali sono pieni di editorialisti che odiano Saviano ma che in pagina, al contrario, lo elogiano. Io che invece lo considero un patriota voglio trattarlo su questa pagina con la nostra cameratesca consuetudine e dirgli di stare attento alla piega che quei due stanno facendo prendere alle piaghe della sua stessa santità, lo hanno infatti costretto all’ostensione di un nuovo romanticismo pop e basta più. Con un grave danno: la demagogia. Quella che separa. Quella di Saviano, se è permesso dirlo, smette di essere un’operazione contro la criminalità nello stesso momento in cui lui stesso si presta ad argomenti speculari a chi l’Italia vuole dividerla. A chi accusa il sud non si risponde accusando il nord e non perché ci sono più meridionali in settentrione di quanti possano essercene nel mezzogiorno ma perché se là sopra ci sono quelli che il tricolore lo hanno messo nel cesso, il tricolore bruciato lo abbiamo già visto a Terzigno, capitale immorale di quella pentola a pressione che sta già in avanzato bollore, capitale di un regno che sta cercando il suo re. E Saviano, che a differenza di quanto ha scritto Ezio Mauro, non è un uomo solo contro il potere, non deve cadere nelle botole del luogo comune.
Se si contrappone al sud il nord per spostare in avanti la famosa “linea della palma” – quella della lezione di Leonardo Sciascia secondo cui il deserto della malavita si prende un orizzonte sempre più vasto – ci si mette a capo di una rivendicazione semplificatrice che cassa definitivamente la verità. Come quando, inseguendo Giulio Andreotti, si diceva che la mafia era solo quella di Roma.
A voler ridursi, come ha fatto Saviano, ad essere “un esponente del sud”, si dà linfa a quell’istinto di separazione che tanto piace al protoleghismo. E anche quelli con il bicchiere in mano, speculari ai nemici del sud, pur dai loro salotti, da sinceri democratici partecipano a una deflagrazione che è solo demagogia. E non, certo, solidarietà, sostegno ai poliziotti e costruzione dello stato. Quando, insomma, alle calunnie contro il sud si replica con accuse contro il nord, non si sta più facendo la guerra ai separatisti dell’Italia ricca, al contrario: si è diventati nemici di Carlo Azeglio Ciampi. E un patriota non può essere capo di una plebe, sia pure mistica, qualcuno deve dirglielo a Saviano. E glielo dico io, cameratescamente. La strada che ha intrapreso Saviano non ha che questo sbocco, costretto com’è nella scorciatoia dai furbi e dai paraculi: quello di restare “un esponente del sud” a rischio di plebeismo, capo dunque di una plebe mistica. E’ quella che lui stesso, in un divertente lapsus prontamente annotato col nostro lapis, definisce, anzi, evoca, come “il mio pubblico”. Qualcuno deve dirglielo di non fare auto-proclami che possano infine ridurlo a caricatura, tipo “Madonna in cammino sulla terra dei peccatori”. Altrimenti, la prossima volta che faranno quelli dello share, canteranno in coro “Mira il tuo popolo, o bella Signora”? Glielo dico io, cameratescamente: si deve diffidare di quel pubblico. E mi ripeto: non c’è tanta differenza tra chi il tricolore lo butta nel cesso e chi, come a Terzigno, dove lo vorrebbero re, il tricolore lo brucia.
Saviano che è fatto santo, un santino messo in mezzo da un furbo e da un paraculo, non è certamente uno di quelli da cravatta stretta e camicia button-down. La sua faccia è perfetta e sa attraversare i mondi, tutti quelli insospettabili, rispettabili ma fuori codice, fuori dunque dalla cerchia dei furbi e dei paraculi. Alla sua vita così complicata aggiunge uno stordimento fatto di rimandi ormai totemici, anche quando i suoi detrattori gli fanno il favore di andargli contro abbaiando. Perfino i camorristi sono diventati più innocui e Saviano sa bene quanto più spietati possono diventare i furbi e i paraculi, e tutti i demagoghi benpensanti.
Belli furono i tempi delle sue riunioni con i ragazzi dello Straniero, la rivista di Goffredo Fofi. Stavano tutti ad ascoltare a bocca aperta e respirando dal naso, tutti immersi nella sacra ostensione della verità fatta letteratura innanzi all’ufficio di Fofi, disturbato solo dal continuo chiacchiericcio del mitico Spada, un fotoreporter amico di Saviano. A un certo punto Fofi s’interrompe infastidito e intima a Saviano: “Roberto, prendi quello e portalo fuori da qui”. Spada si mette in piedi, s’aggiusta il giubbotto, si porta sotto il muso del venerato maestro e gli ruggisce (con fare educato): “Ne’ Giacubi’, statte accuorto”. Uscirono insieme e andarono a divertirsi. Oltre le paludi della letteratura e dell’impegno.
Vecchi giacobini tornano, tornano sempre. Saviano ha sempre la faccia perfetta e il fatto che lui abbia scelto di stare però dalla parte giusta, furba e paracula, impedendo a tanti di condividere la sua santità, ci conforta comunque perché lui non si riduce a vanità. Magari cederà alla tentazione di sottoscrivere quanto ha scritto Ezio Mauro sul caso Saviano: “Un bisogno di cambiare programma non solo in tivù, ma nel paese”. Magari, appunto, cederà nell’illusione che con lui sia veramente nato un linguaggio nuovo, un significato diverso, un differente codice e non – come temiamo, perché sempre di tivù si tratta – solo una versione poetica e furba del solito vecchio risotto di D’Alema, ma che ci s’infili nell’amore, o nella passione sociale, da che mondo è mondo il romanticismo è impolitico. Qualcuno deve dirglielo e glielo dico io, cameratescamente. Per come mi dice sempre lui. Se ha scelto di sottrarsi alla letteratura per farsi riproducibile quanto a icona ma irriducibile quanto a santità, Dio ce ne scampi, può solo correre un serio rischio: diventare solo un nuovo Yuppi Du.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
Ogni pernacchio ha una stretta eco con lo spernacchiato, sono sempre le belle bandiere ad eccitare le pulsioni più grevi, Saviano è anche il mio labaro, onusto di medaglie, ma neppure si può fare, come ha fatto il Giornale, di lanciare in prima pagina una campagna contro Roberto Saviano e manco stampare in bella evidenza la vera notizia: l’arresto di Antonio Iovine, il camorrista.
Fare quegli ascolti che ogni volta si leggono come l’effetto di un formicaio in assedio alla torta del potere ha la funzione di un lavacro di giustizia. Purtroppo lo stesso arresto di Iovine, in questi tempi così malati di odio, grazie alla raffinata manipolazione di quelli col bicchiere in mano (quelli “dell’egemonia culturale, entrando da sinistra”, come giustamente se ne lamenta Ezio Mauro) è risultato quasi quasi ambiguo, una sorta di stroncatura di “Gomorra”, un po’ come la sparatoria sul pianerottolo di Maurizio Belpietro. Ci fosse stata una pistolettata davanti alla porta di Barbara Spinelli, l’Italia civile sarebbe ancora oggi mobilitata, specchiata di sicuro nel trionfante formicaio, affamato di legalità e giustizia. Ma purtroppo è solo la santificazione della geniale banalità quando si fa spettacolo. Questo è il “Vieni via con me” e Fini e Bersani, infatti, ridotti nel ruolo di “portavalori” (copyright di Aldo Grasso), messi sotto l’occhio di bue del narcisismo con l’elenco dei rispettivi valori, non sono la novità della destra e della sinistra, sono soltanto la versione poetica e furba del risotto cucinato da Massimo D’Alema nel salotto di Bruno Vespa.
La manipolazione è sofisticata per definizione e leggere in tre righe tre Curzio Maltese che schiera un giornale contro la critica laureata (Aldo Grasso, il nostro eroe), rea questa stessa critica di aver laurea e titoli di poter discutere della trasmissione-missione, quasi quasi c’indispettisce perché in quelle tre righe Maltese ci ruba il mestiere: “Chi se ne frega della critica laureata”, dice. Magari non ha la rude e futuristica irruenza degli squadristi ma, ci chiediamo, come dovrebbe essere la critica, analfabeta? Solletica già da sinistra, pur con bicchiere in mano, una deriva plebiscitaria? A forza di mettersi nel sacco l’incolpevole Saviano, bisogna pur dirlo.
Ecco, si sono ridotti a replicare Mario Scelba e le sue invettive contro il culturame. Proprio un brivido. E tutto questo per festeggiare la morte del berlusconismo televisivo.
Farsi presepe in tre, poi – perché sono tre i veri protagonisti della funzione, ovvero Loris Mazzetti, Roberto Saviano e Fabio Fazio – replica in automatico la santa trinità di san Giuseppe, la Madonna e il Bambinello. A poco a poco, però, nella morte del berlusconismo televisivo, si sfiora la sceneggiata con tanto di Isso, Issa e o’ Malamente. E tutta quella gioiosa ascesi nel paradiso del successo cui nessun monumento dell’immaginario collettivo democratico si nega (sia esso Abbado, sia Benigni, sia gli Avion Travel) fa precipitare tutto nella cara commedia all’italiana. Ed è perciò che tutti e tre ben s’individuano nei ruoli. Rispettivamente un Furbo, un Santo e un Paraculo.
Il furbo è Loris Mazzetti, capostruttura di Raitre, furbissimo e bravissimo, cui la sciagurata iniziativa dell’azienda Rai di volerlo licenziare gli porterà in dote un immediato reintegro e, di conseguenza, un assoluto potere extraterritoriale derivato dalla magistratura. E senza tema di dover rispondere all’azienda, al suo stesso editore, a qualsivoglia dirigenza Rai perché il grande furbo, una volta riportato in sella da un giudice, potrà sempre fare ostensione di certificato martirio. Avrà voglia Mauro Masi di rimetterlo in riga. Solito tempo perso o, al più, una moltiplicazione di pubblicità che il furbo Mazzetti metterà all’incasso. E tra i ricavi non mancheranno di certo le preziose gocce di quella pioggia di scomuniche asperse da Avvenire dopo le esibizioni di don Gallo (coautore con lo stesso Mazzetti di un libro edito da Aliberti), additato quale “servo narciso” dal giornale dei vescovi ma considerato pezzo forte della macchinazione dove la radice forte è sempre furba, santa e paracula.
Il paraculo è Fabio Fazio di cui abbiamo già dato, tutto si sa ed è bravissimo nel suo essere il monumento della vera Italia. La nazione tutta, infatti, gli assomiglia. Anche nel suo essere di sinistra è molto italiano. Lui è quell’italiano migliore, quello che si fa cittadino consapevole, ceto medio con le riflessioni, borghese dai principi solidi e ancor più saldi convincimenti, insomma: uno che si para sempre il culo. Basti pensare alla disperazione di Roberto Zaccaria, ai tempi della sua stagione in Rai, quando doveva togliere dalle reti un eventuale Piero Chiambretti per non urtare la solitaria ascesi di Fabio Fazio (terrorizzato da un probabile arrivo di Antonio Ricci) e magari nel frattempo alzare alti lai per la prevaricazione di Bruno Vespa, egemone in tutti i giorni della settimana su Raiuno. Tutto si sa di Fazio, è vero, ma solo in ristretta cerchia esoterica, quella dei detrattori, esclusi dalla santa messa penitenziale dei dieci milioni di ascoltatori, ma poiché non è reato augurargli di finire un giorno nella scuderia di Lele Mora, glielo auguriamo caldamente perché – e stiamo usando una parola scelta da Ezio Mauro per Saviano – adesso è proprio “troppo”. Ma nel caso specifico troppo paraculo.
Santino nelle mani del Furbo e del Paraculo è Roberto Saviano. E a lui vanno le preghiere nostre, la mia in particolare, adesso che ha scelto di fare la calata agli inferi, quelli della telegenia, specie quella conformista. I giornali sono pieni di editorialisti che odiano Saviano ma che in pagina, al contrario, lo elogiano. Io che invece lo considero un patriota voglio trattarlo su questa pagina con la nostra cameratesca consuetudine e dirgli di stare attento alla piega che quei due stanno facendo prendere alle piaghe della sua stessa santità, lo hanno infatti costretto all’ostensione di un nuovo romanticismo pop e basta più. Con un grave danno: la demagogia. Quella che separa. Quella di Saviano, se è permesso dirlo, smette di essere un’operazione contro la criminalità nello stesso momento in cui lui stesso si presta ad argomenti speculari a chi l’Italia vuole dividerla. A chi accusa il sud non si risponde accusando il nord e non perché ci sono più meridionali in settentrione di quanti possano essercene nel mezzogiorno ma perché se là sopra ci sono quelli che il tricolore lo hanno messo nel cesso, il tricolore bruciato lo abbiamo già visto a Terzigno, capitale immorale di quella pentola a pressione che sta già in avanzato bollore, capitale di un regno che sta cercando il suo re. E Saviano, che a differenza di quanto ha scritto Ezio Mauro, non è un uomo solo contro il potere, non deve cadere nelle botole del luogo comune.
Se si contrappone al sud il nord per spostare in avanti la famosa “linea della palma” – quella della lezione di Leonardo Sciascia secondo cui il deserto della malavita si prende un orizzonte sempre più vasto – ci si mette a capo di una rivendicazione semplificatrice che cassa definitivamente la verità. Come quando, inseguendo Giulio Andreotti, si diceva che la mafia era solo quella di Roma.
A voler ridursi, come ha fatto Saviano, ad essere “un esponente del sud”, si dà linfa a quell’istinto di separazione che tanto piace al protoleghismo. E anche quelli con il bicchiere in mano, speculari ai nemici del sud, pur dai loro salotti, da sinceri democratici partecipano a una deflagrazione che è solo demagogia. E non, certo, solidarietà, sostegno ai poliziotti e costruzione dello stato. Quando, insomma, alle calunnie contro il sud si replica con accuse contro il nord, non si sta più facendo la guerra ai separatisti dell’Italia ricca, al contrario: si è diventati nemici di Carlo Azeglio Ciampi. E un patriota non può essere capo di una plebe, sia pure mistica, qualcuno deve dirglielo a Saviano. E glielo dico io, cameratescamente. La strada che ha intrapreso Saviano non ha che questo sbocco, costretto com’è nella scorciatoia dai furbi e dai paraculi: quello di restare “un esponente del sud” a rischio di plebeismo, capo dunque di una plebe mistica. E’ quella che lui stesso, in un divertente lapsus prontamente annotato col nostro lapis, definisce, anzi, evoca, come “il mio pubblico”. Qualcuno deve dirglielo di non fare auto-proclami che possano infine ridurlo a caricatura, tipo “Madonna in cammino sulla terra dei peccatori”. Altrimenti, la prossima volta che faranno quelli dello share, canteranno in coro “Mira il tuo popolo, o bella Signora”? Glielo dico io, cameratescamente: si deve diffidare di quel pubblico. E mi ripeto: non c’è tanta differenza tra chi il tricolore lo butta nel cesso e chi, come a Terzigno, dove lo vorrebbero re, il tricolore lo brucia.
Saviano che è fatto santo, un santino messo in mezzo da un furbo e da un paraculo, non è certamente uno di quelli da cravatta stretta e camicia button-down. La sua faccia è perfetta e sa attraversare i mondi, tutti quelli insospettabili, rispettabili ma fuori codice, fuori dunque dalla cerchia dei furbi e dei paraculi. Alla sua vita così complicata aggiunge uno stordimento fatto di rimandi ormai totemici, anche quando i suoi detrattori gli fanno il favore di andargli contro abbaiando. Perfino i camorristi sono diventati più innocui e Saviano sa bene quanto più spietati possono diventare i furbi e i paraculi, e tutti i demagoghi benpensanti.
Belli furono i tempi delle sue riunioni con i ragazzi dello Straniero, la rivista di Goffredo Fofi. Stavano tutti ad ascoltare a bocca aperta e respirando dal naso, tutti immersi nella sacra ostensione della verità fatta letteratura innanzi all’ufficio di Fofi, disturbato solo dal continuo chiacchiericcio del mitico Spada, un fotoreporter amico di Saviano. A un certo punto Fofi s’interrompe infastidito e intima a Saviano: “Roberto, prendi quello e portalo fuori da qui”. Spada si mette in piedi, s’aggiusta il giubbotto, si porta sotto il muso del venerato maestro e gli ruggisce (con fare educato): “Ne’ Giacubi’, statte accuorto”. Uscirono insieme e andarono a divertirsi. Oltre le paludi della letteratura e dell’impegno.
Vecchi giacobini tornano, tornano sempre. Saviano ha sempre la faccia perfetta e il fatto che lui abbia scelto di stare però dalla parte giusta, furba e paracula, impedendo a tanti di condividere la sua santità, ci conforta comunque perché lui non si riduce a vanità. Magari cederà alla tentazione di sottoscrivere quanto ha scritto Ezio Mauro sul caso Saviano: “Un bisogno di cambiare programma non solo in tivù, ma nel paese”. Magari, appunto, cederà nell’illusione che con lui sia veramente nato un linguaggio nuovo, un significato diverso, un differente codice e non – come temiamo, perché sempre di tivù si tratta – solo una versione poetica e furba del solito vecchio risotto di D’Alema, ma che ci s’infili nell’amore, o nella passione sociale, da che mondo è mondo il romanticismo è impolitico. Qualcuno deve dirglielo e glielo dico io, cameratescamente. Per come mi dice sempre lui. Se ha scelto di sottrarsi alla letteratura per farsi riproducibile quanto a icona ma irriducibile quanto a santità, Dio ce ne scampi, può solo correre un serio rischio: diventare solo un nuovo Yuppi Du.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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