lunedì 6 dicembre 2010

Al dunque è meglio fottere che comandare


Premesso che governare l’Italia non è appunto difficile ma inutile, tanto vale, allora, goderselo questo ventennio berlusconiano, con questo padrone da 19 miliardi di euro e settantaquattro candeline sulla torta, questo “Dottore” di nome Silvio che non fa penitenza di tutto il bengodi che gli piove addosso e che non porta alcun cilicio, piuttosto il sorriso (come quando, a sera tardi, congedandosi dai carabinieri dice loro: “Beati voi che ve ne andate a casa a dormire, a me adesso mi tocca andare a scopare!”). Sarà che l’assioma del potere sopra ogni cosa, perfino sulle delizie della congiunzione carnale, in lui è ribaltato; sarà che gli piace il piacere al punto di preferire senz’altro il fottere al comandare, se ne deduce che questo cummenda sovversivo brama a tal livello l’affollarsi di anatomie femminili da realizzare una rivoluzione inaudita: quella di farsi nel disfarsi, quella – insomma – di anteporre al potere, il piacere.

Le spie d’America che vogliono distinguere al primo sguardo le stanchezze dovute al generoso profondere di sesso di cui lui, il Cavaliere, è maestro, in verità non riescono a discernere il far finta suo con un’effettiva spossatezza post-coitale. E magari lui, pur nipote di tante zie monache, mostrando di beffarsene del quadro clinico-erotico raccontato dai suoi detrattori, fa come quel cardinale che si mostrava malatissimo al collegio dei porporati (“Beati voi”, diceva loro, impietosendoli, “che vi potete accomodare al cesso, a me adesso tocca la padella!”) ma per farsi proclamare Papa da lì a poco. Le spie d’America non conoscono la storia, maestra di trucchi. I cardinali di cui sopra, a quello, pensavano di tenerlo sul Soglio giusto il tempo di cambiargli il catetere, lo fecero dunque pontefice di Santa Romana Chiesa, ma quello si alzò dal letto di degenza e fece tutti loro il gesto dell’ombrello: “Adesso comando io”. E comandò ancora a lungo. Sano come un pesce nel battesimale dell’acqua santa.

Il dottor Berlusconi che dice bella! alle belle – lui che lo proclama davanti a tutti, a scanso di ogni segretezza, e senza mai indagare se tra le astanti c’è chi gli si mette a nudo davanti coi sentimenti e chi, nuda, in tacchi a spillo, in realtà è solo donna pubblica – non si cautela coi modi del governante sterile e castrato ma sempre interroga i suoi ricordi di giovinezza e perciò colloquia con la carne nel sacrario sfarzoso della propria dimora.
Sul fare della sera fa di tutto, appunto: con tutta quella benedizione di ragazze dalle labbra tumide, fresche, sanguigne e dure, dall’espressione aperta alla lascivia resa ancor più conturbante dall’irrequietudine della lingua. A tarda sera, fino all’alba, se la gode e lui – solitario, con diciannove miliardi di euro e settantaquattro candeline sulla torta – magari sublima una gang bang alla reverse tra le acri esalazioni di quelle cavalle perché, insomma, ci sarà pure la mistica del corpo delle donne ma nella trasfigurazione che antepone al potere il piacere, quelle tutte cavalle diventano, sono e saranno. Cavalle di un solo Cavaliere. In smodata quantità. Per tenerlo sempre confuso nel bene di tanta abbondanza.

In quel palazzo dove pure l’edicola di una Madonnina veglia il suo inquilino più monello si attende un nuovo Quinto Navarra, ovvero un nuovo cameriere che come con Benito Mussolini, faccia il resoconto epico delle maliarde, delle falene e delle fatali toccate tutte dal fiero punteruolo, quel manico insomma su cui il dottor Berlusconi pare dover affrontare la più incredibile delle eterogenesi: dal penale che, da sempre, gli grava addosso al mero pene. Un osceno eccesso del desiderio?
In quel palazzo dal nome così grazioso, ossia Grazioli, quelle nubi, cupe tanto da schiacciare un gigante – le nubi delle accuse di corruzione, mafia, falsi in bilancio, conflitto d’interessi e perfino seduzione di minorenni – in un brevilineo come lui si diradano, anzi, evaporano, in virtù della sua euforia genitale. Il giornalismo gastroscopico, concentrato nell’assassinio psicologico del personaggio, è sempre chino all’indirizzo del buco, pronto a piazzare il sondino e certificarlo porco con tanto di anatema americano ma quello, il dottor Berlusconi, come un signore dell’Italia delle arti e dell’armonia, smutanda ogni Paolina Bonaparte. Ma anche, come un qualsiasi dottor Berlusconi evocato da Piero Chiara, s’immola nel rito della “spartizione”.
Altro che anomalia italiana, il Cavaliere. E’ tutto nella tradizione, lui. Lui che, nello spartire quotidiano di sé, non sa a chi dare i resti è come il grandissimo Ugo Tognazzi in “Venga a prendere un caffè da noi”. E’ un classico cui piace il classico. Gli piace la gnocca. E nelle misure perfino banali: tette grosse, tanti capelli, coscia lesta e senza dettaglismi e tendenze nuove, senza mai cercare quelle vetrine della singolarità o, peggio, il sondaggio falsato per cui se, messo da canto il corpo delle donne, capitano due trans e tutti poi vanno a trans. No. Gli piace solo la gnocca e rispetto alla sessualità ordinaria il dottor Berlusconi diventa un perturbatore solo nella quantità, nell’eccesso dei numeri, siano essi quelli dell’enumerazione che dell’esibizione. E siccome in psicoanalisi c’è questa benedetta invidia del pene occorre aggiornare la letteratura in proposito e scovare dentro questo ventennio berlusconiano un’invidia speculare, più consona alla politica che alla psiche, ovvero l’invidia della gnocca, invidia ultima e finale portata al punto tale da far dire a tutti i polemisti gastroscopici: “Insomma, dopo aver tentato di eliminarlo per via giudiziaria adesso che si fa, lo impicchiamo per via morale in quanto sporcaccione?”.

Ed è così che quel palazzo dal nome proprio grazioso diventa il municipio di una sua personale Città delle Donne. E non c’è certo bisogno di spiegare quanto sia immerso nella tradizione italiana. Un palazzo dove il padrone di casa, accogliendo le ragazze, le sue adoratrici, le cui avances mai potrebbe scoraggiare, li destina alla visitazione. E tutto, poi, per un’allusione. L’ospitalità – sempre elegante, come dice lo stesso interrogato dall’opinione pubblica, “dove non accade nulla di cui vergognarsi” – nell’immaginazione degli altri dilata telegenicamente nella languorosa e ovattata intimità di un boudoir, ovvero, in un’immensa distesa desolata, “l’habitat morale del lesbismo”. E’ vero, siamo in area Sade, c’è qualcosa di “intrinsecamente fascistico e amorale”, ma stiamo citando l’abruzzese Camille Paglia, non il federale Arcovazzi. Al pari di Sade il dottor Berlusconi fa festini che sono il rimosso per tutti quelli che gli stanno intorno, compresi gli schiavi, i servi, i cortigiani e i ruffiani. Compresi, poi, gli italiani, perfettamente inutili da governare ma che, alla fine, hanno un preciso istinto per immedesimarsi con chi, sollevandoli dall’incombenza, copula in loro vece. Se l’élite, infatti, ha in odio questo dottor Berlusconi che giocherella con la propria immortalità soppesando seni e glutei, se gli italiani migliori vorrebbero mettere le mutande grandi e larghe a tutti, l’italiano medio, al contrario, s’immedesima col dottor Berlusconi in ragione del rimosso dei rimossi: ognuno, vincendo all’Enalotto, farebbe tale e quale come fa lui nell’agio del suo smagliante patrimonio.

Dove ci sono campane ci sono buttane, così sentenzia il proverbio, e più campana di questa stagione berlusconiana non poteva darsi. Custode dei valori e dei focolari qual è, il Cavaliere è anche così assurdamente incoerente da sfasciare il moralismo dei suoi inseguitori ma, contemporaneamente, da far sognare quelli che volentieri prenderebbero il suo posto, specie quando si fa sera, quando rincasando nei propri appartamenti, ritrovano con l’odore del broccoletto messo a sbollentare, il sottofondo della tivù, il carboidrato in agguato e, nell’ambientino sub-domestico, la moglie varicosa. Ci vuole un carico da undici quanto a laicità nel volerlo mettere in scacco questo dottor Berlusconi, amateur indefesso, se appunto è una vittoria della vita la gravidanza senile di Gianna Nannini perché mai dovrebbe essere un laido singulto prostatico l’oplà costante dell’uomo da settantaquattro candeline fattosi drago e perciò bisognoso di altrettante ragazze da sacrificio? Perché la gravidanza in tarda età è ben applaudita e l’uomo che s’attarda con le femmine è riprovevole, giusto per mancato omaggio alla superstizione laica?

A comandare sono buoni tutti. A fottere no. A far catalogo di cavalle il Cavaliere ci mette tutta la scienza e l’arte italiana della Rinascenza: sono infatti nudità, spelonche di lussuria, ardori plastici e rituali patti siglati tra amore e natura, quel culto privato da famelico e felicissimo peccatore. Ma l’eros, si sa, è carceriere. L’arena sessuale è una scena chiusa che parte curvilinea e si conclude a spigoli, insomma, a stanchezza. Ogni buttana si fa merito d’interpretare sempre un’altra persona, ogni ingaggio è una commedia e la profusione dei baci e delle nudità è un dilaniarsi del godimento, una libertà dalle pareti insonorizzate dove società e legge sono tenute lontane. Fosse vero tutto quel che il dottor Berlusconi vuole fare credere sia vero, tutta questa tempesta di gnocca forgia la sua autobiografia facendo al contempo autobiografia alla scienza politica: il suo giacere sul lettone è un giacere pubblico cui occorre segreto di stato e braghettoni di vario genere.

Certo, poi c’è anche l’amore con l’energia messa in campo malgrado le settantaquattro candeline sulla torta, c’è anche quella magia del carisma che nutre il seduttore sapendo di essere desiderato per via della grandezza avendone sempre in cambio una sottomissione. Gabriele d’Annunzio – che avrebbe potuto chiedere poteri a Mussolini – issato sugli allori di una gloria di militia e poesia, chiese allo stato solo piaceri e tanti altri piaceri. Per comandare in casa propria. E ordinare solo giochi e stranezze. Così come fece con le tante donne prossime al suo capezzale di vizioso. Indossava una camicia da notte col buco pronto, uno scivolo da dove far sbucare il suo gonfalone e fare presto presto, strusciandosi nella polvere della cocaina, mostrando il nudo teschio di vegliardo fino a trovare una donna che se lo prese in braccio non più per le grandezze ma per le debolezze. Un vecchio che conosce il piacere trova sempre il modo di consegnarsi a una donna. Per disfarsene, infine, della femmina. E tenersi un’infermiera, “un’infermiera per amor dell’arte”. L’arte e la scienza d’Italia nel farsi disfacendosi: “Quella incolmabile separatezza dei corpi sottratti al facchinaggio della copula, insensata, ignorava il suo contrario”. Lo sfarsi attraverso il darsi, dunque. Un genere difficile. Un genere di titanica tragicità. “L’inquietudine erotica è forsennata ostinazione dell’identico che vorrebbe esser felice addirittura nella felicità”. Stiamo citando Carmelo Bene, il Lorenzaccio, e non Umberto Eco, e così prosegue il CB: “Eravamo in molte in quel letto. Mi alzavo”, raccontava, adottando per sé la declinazione al femminile, “e lasciavo fare loro”.

Ecco, con questo padrone da 19 miliardi di euro e settantaquattro candeline sulla torta, questo “Dottore” di nome Silvio che non fa penitenza di tutto il bengodi che gli piove addosso e che non porta alcun cilicio, piuttosto il sorriso, per comprendere tutto quello che ha fatto senza bisogno di perdere tempo col governare, ci vuole proprio il debito Bene: “Non gli resterà che gestire, abbandonato dall’osceno (in quanto trasgressione continua), il proprio forsennato e necessario feticismo, le vesti femminili abbandonate, scongiurare a forza di pugni gli armadi femminili chiusi a chiave… giocare con l’assenza… ma l’assenza del femminile in questo caso è la gestione assurda e intollerabile della presenza”.
Una gestione assurda e intollerabile della presenza di SB. Uno spettacolo degno di CB. Tanto è valso e tanto ce lo siamo goduto. Le spie d’America che non conoscono la storia, maestra dei trucchi, non conoscono la blandizie femminina che, ammiccando fra una cosa e l’altra, fa sempre punto e accapo con la natura italiana. Tra le biografia e le opere c’è sempre un festino. Perfettamente confuso col Bene.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

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