Tra le molte contraddizioni nelle quali si dibatte il nostro Occidente, ce n'è una particolarmente drammatica, che nasce dal diffuso concetto di "progresso". Il termine, ormai generalizzato, indica il procedere, "l'andare avanti": ma non stabilisce alcun senso alla marcia che indica. Qual è il fine del nostro progredire?
Da circa tre secoli, anzi qualcosa di più, lo si è indicato ripetutamente: al punto che ormai tale traguardo è implicito. Un mondo migliore: di pace, di libertà, di fratellanza, di conquiste scientifiche, di benessere, di scienza, di ragione. Un tempo a questo lungo elenco di bellissime cose si aggiungeva l'uguaglianza: ma essa era troppo legata all'utopia giacobina prima, socialista e comunista poi. L'abbiamo perduta per strada. Dal momento che libertà ed uguaglianza non potevano essere scopi conseguibili insieme, abbiamo privilegiato la prima. Solo che anche così le cose non tornano. Se la libertà si fa assoluta per tutti e ciascuno, essa finisce con l'aggredire la fratellanza e con lo stabilire il regno del benessere dei pochi eletti - perché migliori, o solo perché più ricchi e più forti -, quindi del disagio per tutti gli altri.
E chi ha mai detto che scienza e ragione vadano, di per sé, d'accordo con libertà e fratellanza? E infine, come eliminare la contraddizione tra un mondo che dovrebbe procedere illimitatamente verso il miglioramento - anche nel senso dello sviluppo, alla faccia delle risorse che si esauriscono? - e il destino di ciascuno di noi, che inevitabilmente porta (nei casi più fortunati) all'invecchiamento, all'indebolimento, alla fine della vita? Si può conciliare l'ottimismo cosmico e universale con il pessimismo esistenziale, a meno che una ragione di tipo superiore, ad esempio religioso, non intervenga a far quadrare i conti?
Il punto è che l'idea di progresso illimitato punta anch'essa, implicitamente, a un fine: che può essere la "società senza classi" proposta da Marx o il raggiungimento del migliore dei mondi possibili e quindi l'amministrazione di un esistente liberale e liberistico secondo la visione - andata di gran moda una ventina di anni fa e poi rivelatasi effimera - di Francis Fukuyama. Ma tutti sanno che visioni del genere altro non sono se non laicizzazioni dell'idea ebraica e quindi cristiana della "fine dei tempi" e del "regno dei cieli".
Per i nostri antichi padri - su una linea che dall'India e dalla Persia passa al mondo greco e quindi ellenistico-romano - le cose stavano altrimenti. Il cosmo era una specie di grande essere vivente ("macrocosmo", appunto): e, come quel piccolo universo ch'era l'essere umano ("microcosmo"), degenerava, invecchiava, moriva. Alla fine di ogni ciclo, si situava una catastrofe universale, un caos dal quale nasceva però un universo nuovo: e i cicli ricominciavano. Li abbiamo studiati a scuola: età dell'oro, età dell'argento, età del bronzo, età del ferro. D'altronde, in un universo retto dall'energia dei corpi celesti, dove a ogni stella corrispondeva sulla terra un minerale, una gemma, un fiore, una pianta, un animale. E l'uomo stesso, costituito dai quattro elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco) ma animato da un soffio vitale, poteva rinnovarsi e riacquistar forza, giovinezza e salute esattamente come il mondo, ogni volta che la rotazione di stelle e di pianeti lo riportavano sotto la costellazione che lo proteggeva. Nacque e si sviluppò così l'idea di un tempo "ciclico", nel quale non s'invecchia ma ci si rigenera. L'anno venne diviso in stagioni e organizzato secondo il rapporto tra la terra e la più grande stella dell'universo (o quella che si credeva tale): il sole, la cui forza cominciava a decrescere a ogni solstizio d'estate e giunta al minimo riprendeva a rafforzarsi a ogni solstizio d'inverno. I romani avevano posto il momento della fine dell'anno sotto il dominio contiguo di Saturno (il Chronos dei greci: il dio della distruzione, il tempo che tutto divora a cominciare dai suoi figli) e di Giano, il signore delle porte, il dio bifronte dell'inizio e della fine. Negli ultimi giorni di dicembre, si assecondava il feroce potere del vecchio Saturno: si distruggevano le scorte alimentari attraverso orge di cibo, si assecondava il caos cosmico invertendo l'ordine costituito anche nei rapporti umani. I servi diventavano padroni per un giorno, i signori li servivano. Si prendeva un bambino, la cosa più piccola e priva di potere al mondo, e lo si eleggeva "re per un giorno" porgendogli giocoso omaggio: ci si scambiavano dei doni augurali, in quanto si erano dissipati tutti i beni accumulati in un anno durante quelle "libertà di dicembre" e si aveva bisogno di reintegrare le ricchezze attraverso il tradizionale sistema dello scambio gratuito reciproco, il dono.
Il cristianesimo, affermatosi nel IV secolo - non dimentichiamolo - anche e soprattutto per volontà di alcuni imperatori che scelsero il Cristo, procedette tra IV e VI secolo (diciamo tra il regno di Teodosio e quello di Giustiniano, i due sovrani che organizzarono la nuova fede come "religione di stato" proibendo progressivamente le altre: anche con la forza), si guardò bene dall'abolire quell'equilibrio cosmico ed esistenziale fondato sul morire e sul rinascere, che del resto ricordava da vicino anche l'esperienza del Dio incarnato su questa terra. Recuperò quindi i Saturnalia romani inserendoli in un nuovo ciclo sacrale che aveva come termini il Natale di Gesù - fissato in Occidente in coincidenza con la grande festa solstiziale del Sol Comes Invictus - e l'Epifania, il momento del riconoscimento del Bambino come vero Dio, vero Re e vero Uomo, stabilito il 6 gennaio in coincidenza con quella che, in Egitto, e quindi in tutto il Mediterraneo, era la grande Festa delle Acque sacra alla dea Iside, molti connotati della sacralità della quale passarono alla Beata Vergine Maria. Fu un modo geniale di obliterare le tradizioni pagane e al tempo stesso di riassumerle ed ereditarle con pienezza, mutandone di senso e facendo delle feste pagane altrettanti momenti di attesa e di preveggenza della Verità cristiana.
Al centro del sistema di 13 giorni - e delle fatidiche "Dodici Notti": ricordate Shakespeare? - tra il natale e l'Epifania si trovavano le Calende di gennaio, stabilite ab antiquo e confermate dal calendario approvato da Giulio Cesare come giorno d'inizio del nuovo anno. Giano, da vecchio tornato bambino (il dio bifronte, appunto...), apriva le porte dell'anno nuovo, che trascorrendo attraverso al sequenza del rinnovarsi del passaggio delle costellazioni avrebbe rafforzato, non usurato, il ciclo della vita. Era una grande battaglia contro il tempo che usura, nel nome del Tempo che rinnova. Regali e consumo festivo del cibo avevano questo senso: erano la festa che allontanava il freddo, il male, la morte.
Oggi, nel nostro Occidente, sopravvive il guscio esteriore di quell'antica sostanza sacrale. Consumiamo, ma abbiamo perduto il senso di quel consumo e l'augurio profondo di vita che la consapevolezza di esso comportava. La festa si è disciolta nel "tempo libero" e ogni anno che passa ci avvicina malinconicamente alla fine di tutto. Il cristianesimo aveva salvato il nucleo vitale del paganesimo conservandolo per l'eternità: tornando pagani, ma senza l'ormai perduto senso del Sacro, sappiamo soltanto sprecare ricchezze e accumulare colesterolo. La notte di san Silvestro, il santo della fine e dell'inizio, è solo una notte in più, una tacca sul malinconico calendario della nostra esistenza che si spenge. Reagire? Bisognerebbe cominciare con la riconquista del senso simbolico riposto negli atti che eseguiamo, nei regali e negli auguri che ci scambiamo, nelle buone cose che mangiamo. Le lenticchie, si sa, portano soldi. Ma attenti a non buttar via la vita in cambio di un piatto di lenticchie. È già successo.
(di Franco Cardini)
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