La minestra non scende dal cielo
La minestra non scende dal cielo. L’avevate mai sentita questa? È un regola di vita che può essere tradotta nel modo seguente: il piatto di minestra non si riempie da solo. Quando ero un ragazzo, me lo sono sentito ripetere un’infinità di volte. Era una litania recitata soprattutto da mia nonna Caterina Zaffiro. Lei dava molta importanza alla minestra. Anche perché da giovane vedova non sempre aveva potuto mangiarla. E non sempre era stata in grado di offrirla ai suoi sei bambini.
Volevo scrivere un Bestiario sui giovani rivoltosi che hanno messo a ferro e a fuoco il centro di Roma. Però mi rendo conto di essere partito da tempi troppo lontani.
I ragazzi di oggi che cavolo ne sanno dell’importanza di un piatto di minestra? E della difficoltà di procurarselo? Se hanno delle nonne, sono di sicuro signore ancora giovani, cresciute in un’Italia molto diversa da quella che circondava Caterina. E non recitano litanie.
Ma allora, visto che siamo alla fine dell’anno 2010, voglio raccontare qualcosa ai rivoltosi che si preparano a darci un Natale turbolento. Incoraggiati dalla convinzione di poterla fare franca di nuovo. Del resto, i loro compagni arrestati sono tornati subito in libertà, grazie alla clemenza dei magistrati che avrebbero dovuto tenerli in prigione per un po’ di tempo.
Ho imparato che i giudici non vanno criticati. Sono un potere molto forte e geloso della propria autonomia. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha protestato per aver visto ritornare sulla pubblica via dei giovanotti che gli hanno sfasciato il centro della capitale. Era una protesta che nel mio piccolo ho condiviso. Ma che ha subito ricevuto una replica altezzosa del presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Lui ha sentenziato: accettiamo le critiche, ma non gli insulti. Però non mi pare che il sindaco di Roma abbia insultato nessuno.
Comunque sia, i giovani liberati e i tanti che non hanno trascorso nemmeno un’ora al fresco, appartengono a una generazione che non sa niente della vita. Credono che tutto gli sia dovuto. Si lamentano di non avere un futuro luminoso. Però non muovono un dito per costruirselo da soli. Anche perché vivono nell’illusione che la minestra, e tutto quello che viene dopo, sia un diritto privo di fatica e garantito dagli adulti.
State attenti, cari teppisti, cari sfasciatori di vetrine, di bancomat, di automobili, cari picchiatori di poveri poliziotti. Il mondo non gira come pensate voi. La vita che vi aspetta sarà molto più dura di quella dei vostri padri, dei vostri nonni, dei vostri bisnonni.
Non dovete credere alle favole che dei genitori distratti o troppo clementi vi hanno raccontato. Anche nell’epoca dei computer, di internet e dell’ipod vi potrebbe capitare di ritornare poveri. E di fare i conti con un’esistenza difficile, soprattutto per chi non ha un mestiere vero e finirebbe per ritrovarsi, lo dico alla buona, con le pezze al culo.
Allora, cari bamboccioni violenti, vi potrà servire la storia di mia nonna Caterina, quella del piatto di minestra. Non era nata nel Medioevo, ma nella seconda metà dell’Ottocento. E in una pianura, quella vercellese, a un tiro di schioppo da Torino e da Milano. Era analfabeta e così è rimasta sino alla morte, nel 1947. Non aveva mai un soldo in tasca e rimase vedova a 33 anni, con sei bambini da crescere. Il marito, Giovanni Eusebio Pansa, era un bracciante agricolo. E fu ucciso da un infarto mentre zappava il campo di un padrone.
I figli vennero mandati a lavorare da piccoli. Mio padre Ernesto, il quinto del gruppo, non riuscì neppure a finire le elementari. Aveva nove anni quando lo spedirono fare il servitore in un’azienda agricola, con l’incarico di portare le mucche al pascolo. Era così abituato a non possedere nulla che si ritenne fortunato il giorno che Vittorio Emanuele III, re d’Italia, lo chiamò alle armi e lo inviò al fronte, nella Terza Armata al comando del Duca d’Aosta. Aveva compiuto da poco i diciotto anni.
Tanto tempo dopo, gli chiesi come si fosse trovato nell’inferno della prima guerra mondiale. La sua risposta fu una lezione indimenticabile. Mi disse che si era trovato non bene, ma benissimo. L’esercito gli aveva dato il primo cappotto della sua vita, una novità strepitosa per un ragazzo che si difendeva dal freddo soltanto con una vecchia mantella. Poi un paio di scarponi nuovi, al posto delle scarpe di terza mano, sempre sfasciate. Poi ancora due pasti al giorno, e in uno c’era sempre un po’ di carne, la pietanza che in famiglia mettevano in tavola soltanto a Natale.
Infine, sempre sul fronte, assaggiò per la prima volta il cioccolato e fumò una sigaretta. Per ultimo, conobbe il piacere del sesso, sia pure nei bordelli della Terza Armata. Che, per volere del Duca d’Aosta, pare fossero i migliori dell’intero esercito italiano.
L’unico rammarico di Ernesto riguardava il fratello maggiore, Paolo. Lui non aveva potuto godere di tutto quel ben di Dio per un motivo banale. Paolo era emigrato negli Stati Uniti e lì faceva il muratore. Lavorava a New York e proprio il giorno d’inizio della guerra cadde da un’impalcatura e morì. Venne sepolto nel cimitero di Brooklin ed ebbe una lapide povera com’era sempre stata la sua vita.
Partendo dal piatto di minestra, sono arrivato a descrivere un’Italia ben più miseranda di oggi. La mia conclusione è semplice e schietta. Cari ragazzi teppisti, sono un vecchio signore che ha dovuto conquistarsi tutto. E voglio rivelarvi che di voi me ne fotto. Volete avere un futuro? Pensateci da soli e datevi da fare.
(di Giampaolo Pansa)
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