Lui, ormai, che è così tutto stile costituzionale e marche da bollo, così calato nel ruolo di presidente della Camera da goderne in visibilità, non ha bisogno di camuffare la vera intenzione: apre e chiude la giacca e ostenta agli astanti che se lo guardano con tanto d’occhi un’immaginaria bardatura di tritolo e fili elettrici.
È alto Gianfranco Fini, il martire, ma ha lisce le gote, dunque in sospetto di cosmesi, perché il pelo che dovrebbe tenere in faccia lo tiene dentro e sopra lo stomaco a fargli mucchio in rancore e vendetta. Apre e chiude la giacca, ipnotizza nella ripetizione del gesto i suoi interlocutori a Montecitorio e sibila: «Io sono un ka-mi-ka-ze. Mi faccio esplodere in mezzo a tutti voi. Io mi farò male, ma ne farò tanto a Ber-lu-sco-ni». Apre e chiude la giacca e gli altri, con tanto d’occhi, indietreggiano, mormorando: «È impazzito».
Il 15 dicembre, il giorno dopo la votazione alla Camera che assesta a Fini la sconfitta confermando, al contrario, la fiducia al governo Berlusconi, c’è il Corriere della sera che ripubblica una vignetta di Giannelli uscita a marzo: il 1°, precisamente. C’è disegnato Fini che dice del Cavaliere: «Quando non parla, non so come contrastarlo». Il famoso punto, questo. Lui e l’Altro in eterna guerra. E un ruolo istituzionale, quello ricoperto da Fini, sfregiato da ciò che è diventato un precedente: quello che verrà dopo di lui si sentirà in dovere di fare politica. Detta regole, tempi e procedure. Dallo scranno di Montecitorio invia bigliettini, telefona, dispone, decide. Fa l’arbitro allenatore. Uno dei suoi uomini migliori, Alessandro Campi, politologo, erede di Domenico Fisichella, glielo ha già scritto: «Dimettiti». Ma il Fini compiuto e cresciuto nella propria evoluzione di «tipo umano» l’aveva descritto, anni fa, Geminello Alvi, in un esercizio di fisiognomica e politica: «È un allenatore di pallacanestro».
Lui, ormai, costretto al ribaltamento di un destino (da numero due di Berlusconi a numero due, di fatto, di Pier Ferdinando Casini) fa dunque fronte agli «impedimenti dirimenti», questi: Fini che dichiara di non voler cedere lo scranno da presidente della Camera malgrado il suo conclamato ruolo da leader d’opposizione; il Cavaliere che rivela (per poi smentire, ma solo pro forma) come Fini sottobanco stringa accordi con i magistrati; Casini, infine, che prende l’iniziativa politica, fa accomodare allo stesso tavolo tutto il terzo polo, il Polo della nazione, ovvero Paolo Guzzanti con altri sparsi esponenti di varia titolarità e con gli uomini di Francesco Rutelli. E quando quest’ultimo è seduto di fronte a Fini, siccome in politica il simbolico proclama l’agnizione, sta succedendo che Casini sta mettendo di fronte due eredi di due diverse sconfitte irrimediabilmente costretti al ruolo di perdenti, con Fini ancor di più segnato fino a prossima scadenza. «La tempesta mi ha fatto naufrago in quest’isola di selvaggi, vedrò come sopravvivere, anzi come civilizzarli»: questo il commento scherzoso dell’intraprendente democristiano tornato in auge. E questa è la conseguente ermeneutica di cotanta agnizione: quale Robinson Crusoe, Casini ha fatto di Gianfranco Fini il proprio Venerdì in tanta isola di sopravvissuti.
Ma lui, ormai, forzato al cambiamento, ha da mettere ancora a frutto il lavorio che altri, Italo Bocchino soprattutto, hanno svolto su di lui. Ancora poco tempo fa Bocchino, accompagnato da Chiara Moroni, ha fatto incontrare il suo protetto con Carlo De Benedetti. Ancora nel giro delle feste, per la tombolata a Napoli, un Fini dalle gote sempre più lisce, accudito dalla smagliante Elisabetta Tulliani, ha esercitato quello stile appetibile all’antropologia degli ottimati marcando la differenza col berlusconismo: niente ragazze vistose, solo Babbo Natale. Masticando chewing-gum.
Lui, fatto nuovo da Bocchino che gli ha procurato il sarto e lo ha introdotto nei luoghi giusti, quelli che dovrebbero accoglierlo in extremis, spremerlo un tanto ancora perché tutto va bene purché trionfi il Ttb (Tutto tranne Berlusconi, copyright Giuliano Ferrara), è diventato uno strano animale di destra adatto al pubblico di quella sinistra sempre incapace di uscire dalla trappola obbligata del dover inghiottire sempre il male minore. Come l’avere adottato il piccolo farabutto in odio al grande farabutto. Aggrappati alle magagne decisamente troppo piccole, siano esse la casa di Monte-Carlo, il contratto in Rai per la suocera, fino allo stridente ruolo di presidente della Camera in eterno conflitto politico, la sinistra che s’è fatta scudo con Fini contro le gigantesche magagne del nemico assoluto, questo suo eroe di una destra così abbondantemente predicata da non avere però un linguaggio proprio l’ha spremuto a sufficienza.
Abbandonato dai grandi giornali e perfino dall’Unità che ne ha chiesto le dimissioni dalla presidenza della Camera, Fini che rilancia la propria telegenia pur con quelle cravatte sbagliate dicendo, e facendo cose che non avrebbe mai immaginato di dire e fare ancora un paio di anni fa, vive il dramma di una sua ristretta cerchia (Francesco Proietti Cosimi su tutti, suo inseparabile amico), pronta a restare un passo indietro. E non può precipitare nel baratro di una storia a tutti loro sconosciuta: dai matrimoni per gli omosessuali al testamento biologico, fino alla liberalizzazione delle droghe.
Fatto tutto nuovo da Bocchino, Fini, che da sempre ha avuto un mentore, un regista che lo guidasse in scena, e lo ebbe in principio con donna Assunta, dunque con Giorgio Almirante, quindi con Pinuccio Tatarella, infine con Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, passando poi con Giuliano Amato, lo stesso Giorgio Napolitano, per darsi adesso, mani e piedi, al capogruppo a Montecitorio del Fli che ha cancellato antiche antipatie portandolo fin dentro casa, facendolo amico di famiglia e di gioiosa comitiva, Fini fatto tutto glamour vive queste giornate difficili come un doppiatore maldestro costretto a dare voce a un copione malfatto. Abile divulgatore di concetti altrui, ascoltatore di estenuanti riunioni, fumatore da nevrosi più che di piacere, Fini che allena rischia una partita dove i giocatori, quando non si picchiano tra loro (toni accesi ci sono stati tra Fabio Granata e Silvano Moffa), se ne vanno.
Se n’è andato appunto Moffa e su quell’uomo, la cui tempra morale è indiscussa, Fini non può consolarsi immaginandoselo «corrotto» come un Domenico Scilipoti qualsiasi (che poi, lo Scilipoti, agopunturista, più che comprato è stato sedotto da Berlusconi. Il premier, convocandolo nel suo studio da premier, gli s’è mostrato offrendo il polso affetto dalla tendinite: «Solo Ella mi può dare sollievo». E quello, lo sventurato, lo punse).
Quella sua destra così tanto predicata, la destra tutto stile costituzionale e marche da bollo, lui proprio non la sa esprimere. Tutto questo sforzo, tutto un aprire e chiudere la giacca, per poi rispondere alle domande dei cronisti come risponderebbe Debora Serracchiani?
(di Pietrangelo Buttafuoco)
È alto Gianfranco Fini, il martire, ma ha lisce le gote, dunque in sospetto di cosmesi, perché il pelo che dovrebbe tenere in faccia lo tiene dentro e sopra lo stomaco a fargli mucchio in rancore e vendetta. Apre e chiude la giacca, ipnotizza nella ripetizione del gesto i suoi interlocutori a Montecitorio e sibila: «Io sono un ka-mi-ka-ze. Mi faccio esplodere in mezzo a tutti voi. Io mi farò male, ma ne farò tanto a Ber-lu-sco-ni». Apre e chiude la giacca e gli altri, con tanto d’occhi, indietreggiano, mormorando: «È impazzito».
Il 15 dicembre, il giorno dopo la votazione alla Camera che assesta a Fini la sconfitta confermando, al contrario, la fiducia al governo Berlusconi, c’è il Corriere della sera che ripubblica una vignetta di Giannelli uscita a marzo: il 1°, precisamente. C’è disegnato Fini che dice del Cavaliere: «Quando non parla, non so come contrastarlo». Il famoso punto, questo. Lui e l’Altro in eterna guerra. E un ruolo istituzionale, quello ricoperto da Fini, sfregiato da ciò che è diventato un precedente: quello che verrà dopo di lui si sentirà in dovere di fare politica. Detta regole, tempi e procedure. Dallo scranno di Montecitorio invia bigliettini, telefona, dispone, decide. Fa l’arbitro allenatore. Uno dei suoi uomini migliori, Alessandro Campi, politologo, erede di Domenico Fisichella, glielo ha già scritto: «Dimettiti». Ma il Fini compiuto e cresciuto nella propria evoluzione di «tipo umano» l’aveva descritto, anni fa, Geminello Alvi, in un esercizio di fisiognomica e politica: «È un allenatore di pallacanestro».
Lui, ormai, costretto al ribaltamento di un destino (da numero due di Berlusconi a numero due, di fatto, di Pier Ferdinando Casini) fa dunque fronte agli «impedimenti dirimenti», questi: Fini che dichiara di non voler cedere lo scranno da presidente della Camera malgrado il suo conclamato ruolo da leader d’opposizione; il Cavaliere che rivela (per poi smentire, ma solo pro forma) come Fini sottobanco stringa accordi con i magistrati; Casini, infine, che prende l’iniziativa politica, fa accomodare allo stesso tavolo tutto il terzo polo, il Polo della nazione, ovvero Paolo Guzzanti con altri sparsi esponenti di varia titolarità e con gli uomini di Francesco Rutelli. E quando quest’ultimo è seduto di fronte a Fini, siccome in politica il simbolico proclama l’agnizione, sta succedendo che Casini sta mettendo di fronte due eredi di due diverse sconfitte irrimediabilmente costretti al ruolo di perdenti, con Fini ancor di più segnato fino a prossima scadenza. «La tempesta mi ha fatto naufrago in quest’isola di selvaggi, vedrò come sopravvivere, anzi come civilizzarli»: questo il commento scherzoso dell’intraprendente democristiano tornato in auge. E questa è la conseguente ermeneutica di cotanta agnizione: quale Robinson Crusoe, Casini ha fatto di Gianfranco Fini il proprio Venerdì in tanta isola di sopravvissuti.
Ma lui, ormai, forzato al cambiamento, ha da mettere ancora a frutto il lavorio che altri, Italo Bocchino soprattutto, hanno svolto su di lui. Ancora poco tempo fa Bocchino, accompagnato da Chiara Moroni, ha fatto incontrare il suo protetto con Carlo De Benedetti. Ancora nel giro delle feste, per la tombolata a Napoli, un Fini dalle gote sempre più lisce, accudito dalla smagliante Elisabetta Tulliani, ha esercitato quello stile appetibile all’antropologia degli ottimati marcando la differenza col berlusconismo: niente ragazze vistose, solo Babbo Natale. Masticando chewing-gum.
Lui, fatto nuovo da Bocchino che gli ha procurato il sarto e lo ha introdotto nei luoghi giusti, quelli che dovrebbero accoglierlo in extremis, spremerlo un tanto ancora perché tutto va bene purché trionfi il Ttb (Tutto tranne Berlusconi, copyright Giuliano Ferrara), è diventato uno strano animale di destra adatto al pubblico di quella sinistra sempre incapace di uscire dalla trappola obbligata del dover inghiottire sempre il male minore. Come l’avere adottato il piccolo farabutto in odio al grande farabutto. Aggrappati alle magagne decisamente troppo piccole, siano esse la casa di Monte-Carlo, il contratto in Rai per la suocera, fino allo stridente ruolo di presidente della Camera in eterno conflitto politico, la sinistra che s’è fatta scudo con Fini contro le gigantesche magagne del nemico assoluto, questo suo eroe di una destra così abbondantemente predicata da non avere però un linguaggio proprio l’ha spremuto a sufficienza.
Abbandonato dai grandi giornali e perfino dall’Unità che ne ha chiesto le dimissioni dalla presidenza della Camera, Fini che rilancia la propria telegenia pur con quelle cravatte sbagliate dicendo, e facendo cose che non avrebbe mai immaginato di dire e fare ancora un paio di anni fa, vive il dramma di una sua ristretta cerchia (Francesco Proietti Cosimi su tutti, suo inseparabile amico), pronta a restare un passo indietro. E non può precipitare nel baratro di una storia a tutti loro sconosciuta: dai matrimoni per gli omosessuali al testamento biologico, fino alla liberalizzazione delle droghe.
Fatto tutto nuovo da Bocchino, Fini, che da sempre ha avuto un mentore, un regista che lo guidasse in scena, e lo ebbe in principio con donna Assunta, dunque con Giorgio Almirante, quindi con Pinuccio Tatarella, infine con Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, passando poi con Giuliano Amato, lo stesso Giorgio Napolitano, per darsi adesso, mani e piedi, al capogruppo a Montecitorio del Fli che ha cancellato antiche antipatie portandolo fin dentro casa, facendolo amico di famiglia e di gioiosa comitiva, Fini fatto tutto glamour vive queste giornate difficili come un doppiatore maldestro costretto a dare voce a un copione malfatto. Abile divulgatore di concetti altrui, ascoltatore di estenuanti riunioni, fumatore da nevrosi più che di piacere, Fini che allena rischia una partita dove i giocatori, quando non si picchiano tra loro (toni accesi ci sono stati tra Fabio Granata e Silvano Moffa), se ne vanno.
Se n’è andato appunto Moffa e su quell’uomo, la cui tempra morale è indiscussa, Fini non può consolarsi immaginandoselo «corrotto» come un Domenico Scilipoti qualsiasi (che poi, lo Scilipoti, agopunturista, più che comprato è stato sedotto da Berlusconi. Il premier, convocandolo nel suo studio da premier, gli s’è mostrato offrendo il polso affetto dalla tendinite: «Solo Ella mi può dare sollievo». E quello, lo sventurato, lo punse).
Quella sua destra così tanto predicata, la destra tutto stile costituzionale e marche da bollo, lui proprio non la sa esprimere. Tutto questo sforzo, tutto un aprire e chiudere la giacca, per poi rispondere alle domande dei cronisti come risponderebbe Debora Serracchiani?
(di Pietrangelo Buttafuoco)
Nessun commento:
Posta un commento