Le invereconde notti di Arcore sollecitano molte riflessioni sul Drago (per usare la metafora di Veronica Lario) ma ancor più ne stanno provocando sulle vergini, o presunte tali, che gli si offrivano. Soprattutto da parte del movimento delle donne, resuscitato dallo scandalo eppure già diviso tra chi vuol far la morale e chi teme il moralismo. L’incertezza deriva dal silenzio talvolta complice con cui una parte delle donne ha accettato in questi anni il diffondersi di stili di vita e modelli culturali che sono apparsi moderni e avanzati, e in realtà altro non erano che l’accettazione di una cultura porno e machista, un trionfo per l’immaginario maschile.
Le protestanti scrivono oggi sui loro striscioni: «L’Italia non è un bordello». Ma ne siamo così sicuri? Tra le donne emergono posizioni diverse, e il dibattito in corso sul Corriere ne è testimonianza di grande interesse.
Cominciamo col dire che l’uso dell’avvenenza femminile per avere successo nella vita è stato sdoganato da una messe di messaggi culturali. Le cosiddette teen comedy al cinema, per esempio. Qualche anno fa ne vidi una che mi lasciò allibito: una specie di favola di Cenerentola in cui l’adolescente bruttina ma studiosa e onesta decideva di trasformarsi in una pantera su tacco 12, che rubava per comprarsi i vestiti giusti e partecipare alla feste dove si sniffa la cocaina, e riusciva così a conquistarsi un fidanzato e a strappare un posto di assistente all’anziano e sbavante professore. Non provocò molto scandalo tra le donne. Così come ottenne solo qualche sciovinista alzata di spalla quel povero giornalista inglese il quale si permise di segnalare che in nessun posto del mondo civile, nemmeno in luoghi più moderni e laici di questo, la pubblicità e la tv fanno uso del corpo femminile con la stessa compiaciuta e pornografica evidenza.
Neanche la linea di confine tra chi si prostituisce e chi no è ormai tanto chiara. Un tempo c’era un solo modo di vendere il proprio corpo, e una generale riprovazione sociale per chi lo faceva. Oggi trans ed escort sono figure tollerate e ben frequentate, le accompagnatrici sono usate dagli uomini d’affari nei viaggi di lavoro e i giovani leoni della City si incontrano nei locali di lap dance, dove si esibiscono studentesse non professioniste. Né la condanna della società, che si abbatteva un tempo sulle donne di strada, né a quanto pare quella delle famiglie, sempre più conniventi, colpisce più le multiformi e moderne incarnazioni del sesso a pagamento, alcune delle quali sono anzi ormai considerate un modo come un altro per guadagnare e— come direbbe qualcuno — «concedersi un po’ di relax».
La stessa chiave interpretativa classica della cultura progressista nei confronti della prostituzione—lo fanno per bisogno economico, perché sfruttate, e se emancipate e liberate dal bisogno non lo farebbero più — non regge di fronte a quello che leggiamo. Le ragazze protagoniste delle notti di Arcore, talvolta laureate, spesso occupate, sempre fidanzate, sono libere dal bisogno ma non dalla bramosia del denaro, e sembrano emancipate fino al punto di sfruttare il loro anfitrione più che farsene sfruttare.
Naturalmente non imputo al movimento delle donne la radicale trasformazione dei costumi dell’ultimo trentennio, anche perché un movimento delle donne ormai non c’è più (e bisognerebbe chiedersi perché non c’è più e perché le ragazze di oggi sembrano così lontane e diverse, e così ostili ai valori che avrebbero dovuto emanciparle). Ma imputo alla cultura progressista una timidezza nel contrastare questa presunta modernizzazione. Per farlo, avrebbe dovuto riconoscere che c’erano aspetti della tradizione che sarebbe stato meglio conservare, avrebbe dovuto sforzarsi di comprendere la morale sessuale della Chiesa, avrebbe dovuto ammettere la necessità di un’etica privata, dopo essere diventata la paladina dell’etica pubblica; perché, come si diceva un tempo, il privato è pubblico. Non pretendo che un novello Berlinguer indichi alle nostre figlie il modello di Santa Maria Goretti, ma francamente non si può fare una battaglia sulla morale dopo aver esaltato l’indifferentismo morale di chi ripete che «ognuno sotto le lenzuola fa quello che vuole», Roman Polanski compreso. Qualcuno avrebbe dovuto dire prima, anche quando il satiro non era il presidente del Consiglio, che quello che vedeva non era libertà ma licenza, non liberalismo ma libertinaggio, non società aperta ma casa chiusa. La sinistra liberal non l’ha fatto per paura di apparire bacchettona, e perché è ormai schiava di una cultura dei diritti che è stata declinata soprattutto in chiave di libertà sessuale. Solo se comincerà a farlo adesso, la sua campagna contro il bordello-Italia potrà evitare l’accusa di ipocrisia e di strumentalismo.
(di Antonio Polito)
Le protestanti scrivono oggi sui loro striscioni: «L’Italia non è un bordello». Ma ne siamo così sicuri? Tra le donne emergono posizioni diverse, e il dibattito in corso sul Corriere ne è testimonianza di grande interesse.
Cominciamo col dire che l’uso dell’avvenenza femminile per avere successo nella vita è stato sdoganato da una messe di messaggi culturali. Le cosiddette teen comedy al cinema, per esempio. Qualche anno fa ne vidi una che mi lasciò allibito: una specie di favola di Cenerentola in cui l’adolescente bruttina ma studiosa e onesta decideva di trasformarsi in una pantera su tacco 12, che rubava per comprarsi i vestiti giusti e partecipare alla feste dove si sniffa la cocaina, e riusciva così a conquistarsi un fidanzato e a strappare un posto di assistente all’anziano e sbavante professore. Non provocò molto scandalo tra le donne. Così come ottenne solo qualche sciovinista alzata di spalla quel povero giornalista inglese il quale si permise di segnalare che in nessun posto del mondo civile, nemmeno in luoghi più moderni e laici di questo, la pubblicità e la tv fanno uso del corpo femminile con la stessa compiaciuta e pornografica evidenza.
Neanche la linea di confine tra chi si prostituisce e chi no è ormai tanto chiara. Un tempo c’era un solo modo di vendere il proprio corpo, e una generale riprovazione sociale per chi lo faceva. Oggi trans ed escort sono figure tollerate e ben frequentate, le accompagnatrici sono usate dagli uomini d’affari nei viaggi di lavoro e i giovani leoni della City si incontrano nei locali di lap dance, dove si esibiscono studentesse non professioniste. Né la condanna della società, che si abbatteva un tempo sulle donne di strada, né a quanto pare quella delle famiglie, sempre più conniventi, colpisce più le multiformi e moderne incarnazioni del sesso a pagamento, alcune delle quali sono anzi ormai considerate un modo come un altro per guadagnare e— come direbbe qualcuno — «concedersi un po’ di relax».
La stessa chiave interpretativa classica della cultura progressista nei confronti della prostituzione—lo fanno per bisogno economico, perché sfruttate, e se emancipate e liberate dal bisogno non lo farebbero più — non regge di fronte a quello che leggiamo. Le ragazze protagoniste delle notti di Arcore, talvolta laureate, spesso occupate, sempre fidanzate, sono libere dal bisogno ma non dalla bramosia del denaro, e sembrano emancipate fino al punto di sfruttare il loro anfitrione più che farsene sfruttare.
Naturalmente non imputo al movimento delle donne la radicale trasformazione dei costumi dell’ultimo trentennio, anche perché un movimento delle donne ormai non c’è più (e bisognerebbe chiedersi perché non c’è più e perché le ragazze di oggi sembrano così lontane e diverse, e così ostili ai valori che avrebbero dovuto emanciparle). Ma imputo alla cultura progressista una timidezza nel contrastare questa presunta modernizzazione. Per farlo, avrebbe dovuto riconoscere che c’erano aspetti della tradizione che sarebbe stato meglio conservare, avrebbe dovuto sforzarsi di comprendere la morale sessuale della Chiesa, avrebbe dovuto ammettere la necessità di un’etica privata, dopo essere diventata la paladina dell’etica pubblica; perché, come si diceva un tempo, il privato è pubblico. Non pretendo che un novello Berlinguer indichi alle nostre figlie il modello di Santa Maria Goretti, ma francamente non si può fare una battaglia sulla morale dopo aver esaltato l’indifferentismo morale di chi ripete che «ognuno sotto le lenzuola fa quello che vuole», Roman Polanski compreso. Qualcuno avrebbe dovuto dire prima, anche quando il satiro non era il presidente del Consiglio, che quello che vedeva non era libertà ma licenza, non liberalismo ma libertinaggio, non società aperta ma casa chiusa. La sinistra liberal non l’ha fatto per paura di apparire bacchettona, e perché è ormai schiava di una cultura dei diritti che è stata declinata soprattutto in chiave di libertà sessuale. Solo se comincerà a farlo adesso, la sua campagna contro il bordello-Italia potrà evitare l’accusa di ipocrisia e di strumentalismo.
(di Antonio Polito)
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