mercoledì 9 febbraio 2011

Contro il golpe morale


Rispondo a Ezio Mauro, direttore di Repubblica, uno che purtroppo crede in quel che scrive, anche quando obliquamente cita Gobetti per descrivermi e descriverci (il Foglio) parte di un’adunata di “servi zelanti”. Mi accusa di avere insultato Gustavo Zagrebelsky, bardo dell’azionismo torinese in campagna militante e militare contro Berlusconi, con espressioni “di tipo addirittura fisico, antropologico”. In effetti sono stato sgarbato, aggressivo, emozionale; lo sono stato perché quello di lunedì era un breve testo ritorsivo, nasceva da quanto avevo visto su Repubblica tv, dal fremito di orrore che mi aveva attraversato quando mi era sembrato di capire che una minoranza etica di intransigenti e puritani vuole guidare l’Italia e ripulirla addirittura, progetto tipicamente reazionario e autoritario nella sua natura ideologica, avvalendosi non del voto popolare ma di un’idea e di una pratica totalitarie del diritto (“tutto per tutti” è il loro slogan).

Sono stato villano, lo riconosco senza problemi, ma Ezio Mauro deve essere intellettualmente onesto e riconoscere da parte sua che la mia volgarità era lo specchio in cui si rifrange un attacco continuo, sistematico “di tipo fisico, antropologico” contro la mia parte: ieri eravamo tutti servi e “uomini Fininvest”, e il nostro padrone è da sedici anni vecchio, lubrico, squallido, malato, flaccido tutti i giorni su Repubblica, e al Palasharp era il nemico assoluto, una roba di aggettivi e tipizzazioni antropologiche che nemmeno nella Rivoluzione culturale cinese si era mai arrivati a tanto (infatti il libretto rosso di Eco e di altri “vecchi maoisti” era agitato addirittura da un pionierino tredicenne). Accetto il lamento di Mauro in difesa dell’idolo infranto, e rinuncio a considerarlo un piagnone, ma lui accetti il mio cavallerescamente. Pari e patta.

Quanto al “fantasma dell’azionismo”, tema maggiore dell’editoriale del direttore di Repubblica, ecco che cosa penso. La mia critica all’azionismo viene biograficamente da Togliatti, che non era il capo della nuova destra berlusconiana ma uno stalinista e padre della patria da cui tutto sommato ci fu qualcosa da imparare, insofferente come era delle minoranze etiche e rispettoso delle maggioranze politiche e sociali e religiose (e dei patti costituzionali, tra cui l’articolo 7 che ratificò il Concordato con la chiesa cattolica tra le rumorose e impotenti proteste degli azionisti). Nella mia biografia si è prodotta come è noto una rottura: da comunista che ero, con Mauro a Torino in anni minacciosi e tetri, divenni anticomunista (una corruzione della persona e dello spirito che se Dio vuole condivido con tanta brava gente tra cui molti che pagarono un prezzo alto, mentre io ne ho ricavato una vita comoda e una buona mercede). Questo ci divide, caro direttore: non la vita comoda e la buona mercede dei servi, che per fortuna da miserabili giornalisti condividiamo, ma l’anticomunismo. Io mi sono rassegnato a condividere, almeno metodologicamente, il liberalismo e i suoi criteri di giudizio, e ho ammazzato il Togliatti che era in me e nella mia educazione familiare; tu no, tu ti sei imbevuto della psicologia politica e della cultura torinese dell’azionismo, e hai riversato in questo moralismo democratico ma non liberale le tue ardenti pulsioni di giovane comunista alle prese con il mondo borghese della stampa e dell’editoria. Il comunismo non si porta più, l’azionismo è un sempreverde.

Tu vuoi, come scrivi, “coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana”: vaste programme come l’eliminazione dei coglioni dalla storia. La sinistra comunista post-togliattiana ha dato vita a un partito, il Pd, che ha perfino rifiutato l’etichetta “di sinistra” per fare una cosa nuova dopo il crollo delle illusioni criminogene del Novecento, e voi azionisti d’oggi quel povero partito in balia di ogni vento di dottrina lo volete incastrare nella plaga triste della questione morale, quell’uso contundente e violento del diritto e della legalità che ha distrutto la Prima repubblica dei partiti e, provvidenzialmente, ha generato il fenomeno novissimo, e ne convengo anche anomalo surreale e un po’ folle, del berlusconismo. E ora volete liberarvi delle conseguenze dei vostri stessi atti politico-procuratizi con un cipiglio alla Cromwell, sospendendo Parlamento, maggioranze, istituzioni e travolgendo tutto con una specie di strisciante teoria del golpe morale: il vostro teorema facinoroso e antiliberale è che Berlusconi ha rincretinito gli italiani del famoso paese alle vongole, e prima di averli fatti rinsavire con l’alleanza tra media e procure non si deve votare né consentire alla maggioranza sovrana di funzionare, firmato Spinelli & Zagrebelsky. Gli azionisti storici furono eroi ed esseri umani con le loro debolezze (c’è un bel saggio di Angelo d’Orsi sulla Torino tra le due guerre che ti consiglio di rileggere), quelli di oggi sono l’utopismo progressivo e paternalistico dei ricchi e perbene. Può un turpe avventuriero, un aedo di malandrini come me, far parte della congrega?

Ma tu dici che ci divide l’antifascismo, che noi relativizziamo. E’ vero che lo relativizziamo, insieme con il suo opposto, ma perché voi ne avete fatto un assoluto mistico e retorico, vi siete sempre rifiutati di capire che c’era un antifascismo democratico come un antifascismo non democratico, e che la mancata distinzione e opposizione tra i due ha generato alcune mostruosità politico-culturali fin dentro la carta costituzionale e poi più oltre negli anni duri della guerra fredda che è stata vinta dai Sogno e dai Reagan e dai Giovanni Paolo II e non da Bobbio e Galante Garrone, che si sono tenuti ben distanti dal calore della cucina anticomunista. In questo senso è vero che voi riproponete “un patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione”, nel senso che voi interpretate la Costituzione in modo originalista, ferreamente conservatore, immobilista, proprio come la grande destra americana, epperò i tea party vogliono ridurre il peso dello stato mentre voi lo stato lo volete “tutto in tutti”. Vade retro.

Vedi, una volta Galante Garrone, a cui avrei dato tranquillamente il sigillo civico di Torino, io che l’ho dato anche a Lech Walesa quando amministravo la città ed ero una minoranza etica nel vecchio Pci ancora vagamente stalinista, una volta quel bel vecchio cattivo disse che un giudice corrotto, e mio caro amico personale (Renato Squillante), disonorava la toga facendo in carcere lo sciopero della fame. “Parli come le Brigate rosse”, gli dissi alla radio tra mille strepiti e rabbuffi, perché solo i terroristi non sanno distinguere tra la toga di un magistrato e la persona umana (“Mi spiace, signor giudice, io sparo alla toga e se dentro alla toga c’è lei non posso farci niente”, aveva tranciato netto un Curcio o un suo sodale al processo di Torino). Ecco, questo è un azionista torinese, purtroppo. Questa è la ragione della mia e della nostra rivolta contro il feroce repubblicanesimo della virtù, giacobinismo non tanto mite quanto si descrive. Quanto a Bobbio supplice, fummo noi stessi con l’intervista di Buttafuoco a consentirgli di uscire dal suo incubo, che non è la lettera al Duce ma il silenzio troppo pudico degli anni successivi, lunghi anni di lezioni morali da un pulpito che non le consentiva. E a proposito di quella brava persona, arcitaliana come tutti noi, dici che volevamo colpirlo “in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana”. Scusa Ezio, ma non è Gobetti, il tuo amato Gobetti, ad aver scritto che il fascismo è “l’autobiografia della nazione”, cioè il risvolto debole della nostra comune natura storica e antropologica? Ma che ti fidi di dire, certe volte?

La destra italiana emersa dalla crisi della Prima repubblica parla un linguaggio altro e diverso rispetto al nostro, caro Mauro. Per te è puro orrore che il paese non sia guidato da gente “con le case piene di vecchi libri”. Per me è un antidoto contro il modo truce in cui fu seppellita la Repubblica dei partiti che avevano firmato la Costituzione, e che poi avevano stipulato un lungo e decisivo compromesso storico e istituzionale per salvaguardare, dopo la sfida del 18 aprile 1948, la libertà degli italiani e la difesa dell’occidente. Tu dici di essere un liberale di sinistra, dunque un ossimoro, perché il liberalismo è una patetica petizione di principio senza un’antropologia negativa, senza uno spirito conservatore individualista e nel fondo tradizionalista, e senza quel tanto di allegria e di ottimismo che deriva da una considerazione non legalistica della norma etica. Il mio modo di essere bacchettone lo conosci: predico inutilmente contro aborto, distruzione della famiglia, sessualità senza significato, fabbricazione dei figli, istupidimento culturale di massa. Ma non voglio mettere le manette a nessuno, e tollero le coppie di fatto di qualunque sesso, le donne che abortiscono e chi tiene loro bordone nella più totale sordità morale, critico una cultura non i poveri cristi che ci vivono dentro. Voi invece siete democratici radicali con tendenze al giacobinismo più morboso, e il vostro amore ateo e devoto per la virtù civica rischia ad ogni passo di trasformarsi in disprezzo per la città e per i suoi abitanti, in canzonatura e concione eterna a emendare i difetti degli altri senza guardare ai propri. Sarò un adulatore pacchiano, un servo zelante, un pretoriano e un mistificatore, e ti lascio volentieri la palma di uomo libero e integro. Ma considera che forse, più semplicemente, e per ragioni forti, non siamo d’accordo tra di noi. Comunque, lo ripeto invano, se avete voglia di uscire dal vostro bunker virginale e fare quattro chiacchiere con me in tv, sono sempre disponibile. Non mordo mica. Un saluto.

(di Giuliano Ferrara)

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