Come tutte le fughe negli eserciti improvvisati, anche quella dei parlamentari che lasciano Fini per tornare berlusconiani è precipitosa e disordinata. Scappano senza sapere bene come saranno accolti da coloro, ma soprattutto da Colui, che mesi fa hanno lasciato, ma sentono che una battaglia si è conclusa e devono trovare immediato riparo.
C'’è l’attore ansioso di scritture e contratti, il giornalista che nuovamente si separa dai celebri figli, i deputati e senatori delusi nelle loro aspettative, c’è per tutti il sogno della sopravvivenza politica nel castello governato con mano ferma da un principe munifico e minaccioso. Lui, Gianfranco Fini, osserva cupo l’esito della sua ultima svolta ma ha scelto, in un editoriale che oggi pubblicherà “Il Secolo d’Italia”, di tener duro sulla linea tracciata a Milano anche se forse sarà costretto a fare i conti con le sue illusioni e i suoi errori. La diaspora dei finiani potrebbe non rappresentare la fine dell’ultima impresa del presidente della camera. Il nuovo partito si regge su un marchio in cui è stampato il suo nome, gli altri non contano, ma sicuramente l’abbandono di tanti seguaci oscura in modo evidente la sua immagine. La storia dei parlamentari che lo stanno lasciando è sicuramente un nuovo clamoroso esempio di trasformismo e di quell’anarco-servilismo che il linguista Raffaele Simone indicava fra le caratteristiche degli italiani con la vocazione al servaggio volontario che comincia con la “libido adsentandi”, “la smania di dire sempre sì”, e si conclude con l’illusione di essere diventati più liberi, “falsa specie libertatis”. Se Tacito ci aiuta a capire i moti dell’anima di questi benestanti boat–people che sfuggono al controllo del vecchio gerarca per gettarsi nelle mani del Duce supremo, solo la politica può spiegare quello che sta accadendo. Proviamo a farlo.
I transfughi temono lo scioglimento delle Camere e cercano la rielezione. Alcuni di loro si sono lanciati nell’impresa di Futuro e Libertà senza aver capito bene quel che stavano facendo. Si sono affidati a Fini. Fuggono da Fini. C’è in questa ultima scelta la rottura di un antico sodalizio. Hanno seguito Fini perché hanno sviluppato nel tempo un forte legame verso la sua persona, perchè credevano di dar vita a un altro partito di destra, perché pensavano che la stella di Berlusconi stesse tramontando velocemente. Lo lasciano sancendo una rottura umana, una delusione politica e un calcolo cinico sull’immediato futuro. Fini è stato messo in discussione come uomo e come leader. Se i vecchi colonnelli non lo avevano seguito in quest’ultima avventura perché da tempo si erano accasati negli accampamenti berlusconiani, alcuni degli ultimi seguaci si sono trovati all’improvviso di fronte a un capo che è sembrato irriconoscibile. Alcuni di loro sono stati tratti con grande durezza e declassati brutalmente nel nuovo organigramma, altri hanno scoperto che l’abbandono della casa madre avrebbe potuto rappresentare la rinuncia alla destra per come se la sono immaginata. Anche alcuni intellettuali finiani si sono distaccati per questa ragione. Pensavano di spostare all’indietro le lancette dell’orologio dando vita a un nuova An priva di tutta la zavorra di prima, Gasparri e Larussa compresi, si sono accorti che la “destra moderna” di cui avevano parlato in infiniti dibattiti televisivi assomigliava tremendamente a un partito di centro.
Il personaggio più drammatico di tutta questa storia è proprio lui, Gianfranco Fini. L’uomo è duro e diffidente, i suoi sforzi di darsi un’immagine più accattivante sono falliti anche se ha goduto di una larga popolarità. Soprattutto è mancato nel punto preciso in cui si costruisce una vera leadership, cioè la capacità di connettersi al suo popolo. In due momenti ha mancato l’appuntamento. Quando ha deciso di strappare con il suo partito facendosi espellere prima di aver preparato questa eventualità. Quando si è affidato interamente al gioco politico culminato nel 14 dicembre e lì finito. Sulle sue spalle gravava un compito immane. Comunque vada a finire la sua storia, la rottura con Berlusconi resta un gesto politico che resterà nei libri di politica perchè ha cambiato la storia della destra. Tuttavia se il suo itinerario confuso di questi sedici anni ha un filo rosso, dalla svolta di Fiuggi alla kippa gerosolimitana alla frattura con il premier, va identificato nel tentativo, che culminò nel patto con Segni, di far diventare la destra missina una destra liberale, quello che Fini ha sottovalutato, come molti a sinistra, è la berlusconizzazione del popolo di destra.
Fini in tutti questi anni ha creduto probabilmente che fra destra e berlusconismo vi fosse un matrimonio di convenienza non avendo colto che invece c’è stata una rifondazione della destra stessa. Lui lavorava per una destra di tipo europeo, il suo socio maggiore gli sfilava da sotto il naso la sua gente. La sua rottura, “quel mi cacci?”, che voleva essere la rivendicazione di una democrazia di partito, incontrava un popolo che aveva scelto un leader ed era indifferente alla democrazia. Non a caso anche Giuliano Ferrara ha concluso la sua milanese intemerata “liberale” chiedendo al capo di essere più capo. La destra, in pratica, non c’è più, si è impastata con il berlusconismo e solo quando questo sarà sconfitto potrà cercare di trovare una propria strada. Forse la frettolosa scelta di aderire alla alleanza di centro, al cosiddetto “polo della nazione”, conteneva la consapevolezza di Fini di dover cercare un’altra collocazione e un altro popolo. Con l’articolo di oggi sul “Secolo” a questa prospettiva allude quando cerca di ridurre l’ìmpatto delle fughe dal suo nuovo partito. E’ il Fini dell’accordo con Segni che torna a fare capolino. Gli errori nella conduzione del congresso fondativo, un tratto umano complicato, e la paura del domani hanno spinto molti dei suoi a lasciare il barcone già pieno di acqua. Il presidente della Camera considera, da quel che abbiamo letto sul suo giornale, questo prezzo inevitabile. Tuttavia rischia di perdere non solo una manciata di deputati e senatori ma anche la reputazione politica. Il tema ossessivo della sfida personale con il premier lo ha portato in un vicolo cieco. Ora cerca deve raccogliere le forze che ha e mettersi in cammino verso l’ultimo viaggio, il più duro, il più lungo perché non prevede blitzkrieg, cioè guerre lampo, (anche la sinistra non si illuda), quello più esposto all’accusa di tradimento ma anche l’unico che potrà restituirgli un ruolo nella crisi del berlusconismo che neppure le fughe di Barbareschi, Guzzanti e tanti tremuli ex camerati potranno fermare.
(di Peppino Caldarola)
C'’è l’attore ansioso di scritture e contratti, il giornalista che nuovamente si separa dai celebri figli, i deputati e senatori delusi nelle loro aspettative, c’è per tutti il sogno della sopravvivenza politica nel castello governato con mano ferma da un principe munifico e minaccioso. Lui, Gianfranco Fini, osserva cupo l’esito della sua ultima svolta ma ha scelto, in un editoriale che oggi pubblicherà “Il Secolo d’Italia”, di tener duro sulla linea tracciata a Milano anche se forse sarà costretto a fare i conti con le sue illusioni e i suoi errori. La diaspora dei finiani potrebbe non rappresentare la fine dell’ultima impresa del presidente della camera. Il nuovo partito si regge su un marchio in cui è stampato il suo nome, gli altri non contano, ma sicuramente l’abbandono di tanti seguaci oscura in modo evidente la sua immagine. La storia dei parlamentari che lo stanno lasciando è sicuramente un nuovo clamoroso esempio di trasformismo e di quell’anarco-servilismo che il linguista Raffaele Simone indicava fra le caratteristiche degli italiani con la vocazione al servaggio volontario che comincia con la “libido adsentandi”, “la smania di dire sempre sì”, e si conclude con l’illusione di essere diventati più liberi, “falsa specie libertatis”. Se Tacito ci aiuta a capire i moti dell’anima di questi benestanti boat–people che sfuggono al controllo del vecchio gerarca per gettarsi nelle mani del Duce supremo, solo la politica può spiegare quello che sta accadendo. Proviamo a farlo.
I transfughi temono lo scioglimento delle Camere e cercano la rielezione. Alcuni di loro si sono lanciati nell’impresa di Futuro e Libertà senza aver capito bene quel che stavano facendo. Si sono affidati a Fini. Fuggono da Fini. C’è in questa ultima scelta la rottura di un antico sodalizio. Hanno seguito Fini perché hanno sviluppato nel tempo un forte legame verso la sua persona, perchè credevano di dar vita a un altro partito di destra, perché pensavano che la stella di Berlusconi stesse tramontando velocemente. Lo lasciano sancendo una rottura umana, una delusione politica e un calcolo cinico sull’immediato futuro. Fini è stato messo in discussione come uomo e come leader. Se i vecchi colonnelli non lo avevano seguito in quest’ultima avventura perché da tempo si erano accasati negli accampamenti berlusconiani, alcuni degli ultimi seguaci si sono trovati all’improvviso di fronte a un capo che è sembrato irriconoscibile. Alcuni di loro sono stati tratti con grande durezza e declassati brutalmente nel nuovo organigramma, altri hanno scoperto che l’abbandono della casa madre avrebbe potuto rappresentare la rinuncia alla destra per come se la sono immaginata. Anche alcuni intellettuali finiani si sono distaccati per questa ragione. Pensavano di spostare all’indietro le lancette dell’orologio dando vita a un nuova An priva di tutta la zavorra di prima, Gasparri e Larussa compresi, si sono accorti che la “destra moderna” di cui avevano parlato in infiniti dibattiti televisivi assomigliava tremendamente a un partito di centro.
Il personaggio più drammatico di tutta questa storia è proprio lui, Gianfranco Fini. L’uomo è duro e diffidente, i suoi sforzi di darsi un’immagine più accattivante sono falliti anche se ha goduto di una larga popolarità. Soprattutto è mancato nel punto preciso in cui si costruisce una vera leadership, cioè la capacità di connettersi al suo popolo. In due momenti ha mancato l’appuntamento. Quando ha deciso di strappare con il suo partito facendosi espellere prima di aver preparato questa eventualità. Quando si è affidato interamente al gioco politico culminato nel 14 dicembre e lì finito. Sulle sue spalle gravava un compito immane. Comunque vada a finire la sua storia, la rottura con Berlusconi resta un gesto politico che resterà nei libri di politica perchè ha cambiato la storia della destra. Tuttavia se il suo itinerario confuso di questi sedici anni ha un filo rosso, dalla svolta di Fiuggi alla kippa gerosolimitana alla frattura con il premier, va identificato nel tentativo, che culminò nel patto con Segni, di far diventare la destra missina una destra liberale, quello che Fini ha sottovalutato, come molti a sinistra, è la berlusconizzazione del popolo di destra.
Fini in tutti questi anni ha creduto probabilmente che fra destra e berlusconismo vi fosse un matrimonio di convenienza non avendo colto che invece c’è stata una rifondazione della destra stessa. Lui lavorava per una destra di tipo europeo, il suo socio maggiore gli sfilava da sotto il naso la sua gente. La sua rottura, “quel mi cacci?”, che voleva essere la rivendicazione di una democrazia di partito, incontrava un popolo che aveva scelto un leader ed era indifferente alla democrazia. Non a caso anche Giuliano Ferrara ha concluso la sua milanese intemerata “liberale” chiedendo al capo di essere più capo. La destra, in pratica, non c’è più, si è impastata con il berlusconismo e solo quando questo sarà sconfitto potrà cercare di trovare una propria strada. Forse la frettolosa scelta di aderire alla alleanza di centro, al cosiddetto “polo della nazione”, conteneva la consapevolezza di Fini di dover cercare un’altra collocazione e un altro popolo. Con l’articolo di oggi sul “Secolo” a questa prospettiva allude quando cerca di ridurre l’ìmpatto delle fughe dal suo nuovo partito. E’ il Fini dell’accordo con Segni che torna a fare capolino. Gli errori nella conduzione del congresso fondativo, un tratto umano complicato, e la paura del domani hanno spinto molti dei suoi a lasciare il barcone già pieno di acqua. Il presidente della Camera considera, da quel che abbiamo letto sul suo giornale, questo prezzo inevitabile. Tuttavia rischia di perdere non solo una manciata di deputati e senatori ma anche la reputazione politica. Il tema ossessivo della sfida personale con il premier lo ha portato in un vicolo cieco. Ora cerca deve raccogliere le forze che ha e mettersi in cammino verso l’ultimo viaggio, il più duro, il più lungo perché non prevede blitzkrieg, cioè guerre lampo, (anche la sinistra non si illuda), quello più esposto all’accusa di tradimento ma anche l’unico che potrà restituirgli un ruolo nella crisi del berlusconismo che neppure le fughe di Barbareschi, Guzzanti e tanti tremuli ex camerati potranno fermare.
(di Peppino Caldarola)
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