Sono stato anch’io, come credo tutti o quasi, molto sorpreso dall’iniziativa dei cinque parlamentari che hanno proposto l'abrogazione della XII Disposizione Transitoria e Finale della nostra Costituzione, che recita «È vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista». Un'iniziativa da ritenersi, nel senso etimologico del termine, intempestiva. Perché effettivamente i tempi non sono ancora maturi per tale scelta: o non lo sono più. Mi spiego meglio, certo che queste righe rischiano di mettermi alla gogna e, francamente, di ciò poco preoccupato.
Debbo dire che le reazioni della stragrande maggioranza dei parlamentari e dei mass media non mi stupisce, anzi è esattamente quella che mi sarei immaginato. Non parlerò dell'opinione pubblica, perché essa, se mai è esistita in questo paese, non esiste più da tempo: sostituita dal vocìo a gola spiegata, dall'imbonimento televisivo, dall'eterna spettacolarizzazione del Nulla, dal conformismo dissimulato dal turpiloquio che lo fa sembrare ribellione. Ma debbo dire di sentirmi disturbato e disgustato. Dalla sinistra, che quasi compatta si trincera pretescamente dietro le vecchie formule liturgiche, i vecchi crocifige, e rispolvera l'ormai desueta «resistenza» confidando nel suo immarcescibile potere deterrente. Dal centrodestra, che reagisce tra l'indispettito e l'ipocrita, senza osare non solo dire fino in fondo quel che pensa, ma nemmeno chiedersi sul serio, e una buona volta, se pensa davvero qualcosa. E che cosa.
Distinguiamo dunque con cura, tanto per far un po' d'ordine, i due piani del discorso. Primo, la questione politica e pratica. Secondo, la questione morale e di principio. Anzi, cominciamo da quest'ultima. I «Padri Costituzionalisti», varando il Documento fondamentale della nostra Repubblica quel 27 dicembre del 1947, sapevano benissimo quel che facevano: e lo facevano con grande equilibrio, con straordinaria coscienza.
Nel '47, i fuochi covavano ancora sotto la cenere e le ferite erano ancora vive, brucianti. L'antifascismo aveva un valore assoluto: per qualcuno addirittura religioso. Eppure, al di là della retorica che accompagnava anche tutto ciò (la retorica c'entra sempre) e della forza d'intimidazione esercitata allora da alcuni partiti, era chiaro anzitutto che di antifascismi ne esistevano parecchi (quello liberale o cattolico non era quello socialista o comunista). Ed era chiaro soprattutto che, per coscienze democratiche e istituzioni democratiche il proibire qualcosa era sempre e comunque un vulnus: paradossalmente, la difesa della democrazia che si voleva mettere in atto attraverso una disposizione costituzionale era in contraddizione con lo spirito stesso della democrazia, che - per quanto l'espressione che sto per citare si sia usurata col Sessantotto e dintorni - vieta di vietare.
Non si difende la democrazia con un provvedimento liberticida; non la si tutela resuscitando, sia pur in modo limitato ed eccezionale, lo spettro del «delitto d'opinione». Una democrazia non può vietare alcuna manifestazione di libertà di pensiero: può solo inquadrarla in un sistema di leggi che le impedisca di sviluppare potenzialità negative. I Padri della Costituzione lo sapevano: e difatti incapsularono quella norma velenosa - che tra l'altro non spendeva nemmeno una parola non diciamo a condannare, ma neppure a definire il fascismo: e si limitava al divieto di riorganizzazione di un partito disciolto, non di creazione di altri nuovi partiti eventualmente simili o analoghi (difatti nacque il MSI) - nel contesto di una «Disposizione Transitoria e Finale» (intendendo questo secondo aggettivo nel senso non già di «definitivo e irreversibile», bensì di «conclusivo del documento»: non dell'argomento). Ma, nel pensiero dei Padri, quanto a lungo avrebbe dovuto durare la «transitorietà» della XII Disposizione? Evidentemente, finché i tempi non fossero mutati e finché non fosse maturata una definitivamente solida coscienza democratica.
Questa considerazione consente di tornare al primo dei piani del discorso dai quali siamo partiti: la questione politica e pratica. Viviamo in un tempo di volgarità, di equivoci, di violenze. Un tempo di scarsa cultura e dunque di scarsa riflessione: e, in cambio, di spregiudicate mistificazioni. Ammettiamo pure l'impossibile: vale a dire che il Parlamento, a maggioranza qualificata (il 66%, necessario alle modifiche costituzionali), accogliesse la proposta d'abrogazione della XII Disposizione. Chi si prenderebbe la briga della «Rifondazione Fascista»? Quale e quanta parte della popolazione italiana se ne sentirebbe attratta o interessata? E, soprattutto, su quali basi si riannoderebbero le fila di un discorso tragicamente interrotto sessantotto anni fa (alludiamo al Partito Nazionale Fascista, mentre ad esempio il MSI si rifaceva semmai al Partito Fascista Repubblicano e alla repubblica Sociale)? Che «modello fascista» si adotterebbe? Il solo che al giorno d'oggi avrebbe qualche chance di successo sarebbe un mostriciattolo xenofobo e razzista: un abito che il fascismo indossò nella seconda parte della sua esistenza e che preluse alla sua rovina.
Personalmente, credo che nel suo valore politico originario il fascismo fosse essenzialmente un esperimento di convergenza e di compatibilità della valorizzazione dell'identità nazionale insieme con la giustizia sociale. In altri termini, il programma dei Fasci di Combattimento del '19, quello «di San Sepolcro», ch'era piaciuto anche a Nenni, a Salvemini e a Toscanini. Sarebbe poi così «desueto», così inattuale, un programma di quel genere: o meglio, al di là di molti punti che lo renderebbero anacronistico, sarebbe inattuale lo spirito che lo animava? Forse no: solo, dubito che interesserebbe a qualcuno. Men che mai a quanti oggi, osino o meno ammetterlo o proclamarlo, credono di sentirsi «fascisti».
Ecco perché ritengo che la proposta dei cinque parlamentari, senza dubbio plausibile e legittima sul piano della democraticità, sia inattuabile in quanto inattuale e intempestiva. La nostra democrazia, fondata e auspicata nel 1947, è maturata alla meglio fino a destrutturarsi rapidamente a cominciar dagli Anni Settanta e a rovinare dagli Anni Novanta in poi. Non dico che non si può abrogare la XII Disposizione perché i tempi non sono ancora maturi: sostengo che non lo sono più, che il frutto della democrazia italiana è maturato troppo, vale a dire che è marcito. Verrà quindi per naturale avvicendamento l'inverno di questa democrazia calpestata e tradita: non so che aspetto avrà, ma so che verrà. Poi, forse, volverá cantando primavera, come diceva il vecchio inno falangista. Ma quando e come, non lo so. Allora, chi vivrà, vedrà. Allora, forse, vi saranno condizioni di maturità e di sicurezza della libertà di tutti tanto forti da consentire quell'abrogazione e chissà quali altre belle cose. Ora, no. Non possiamo permettercelo. Non lo meritiamo.
(di Franco Cardini)
Debbo dire che le reazioni della stragrande maggioranza dei parlamentari e dei mass media non mi stupisce, anzi è esattamente quella che mi sarei immaginato. Non parlerò dell'opinione pubblica, perché essa, se mai è esistita in questo paese, non esiste più da tempo: sostituita dal vocìo a gola spiegata, dall'imbonimento televisivo, dall'eterna spettacolarizzazione del Nulla, dal conformismo dissimulato dal turpiloquio che lo fa sembrare ribellione. Ma debbo dire di sentirmi disturbato e disgustato. Dalla sinistra, che quasi compatta si trincera pretescamente dietro le vecchie formule liturgiche, i vecchi crocifige, e rispolvera l'ormai desueta «resistenza» confidando nel suo immarcescibile potere deterrente. Dal centrodestra, che reagisce tra l'indispettito e l'ipocrita, senza osare non solo dire fino in fondo quel che pensa, ma nemmeno chiedersi sul serio, e una buona volta, se pensa davvero qualcosa. E che cosa.
Distinguiamo dunque con cura, tanto per far un po' d'ordine, i due piani del discorso. Primo, la questione politica e pratica. Secondo, la questione morale e di principio. Anzi, cominciamo da quest'ultima. I «Padri Costituzionalisti», varando il Documento fondamentale della nostra Repubblica quel 27 dicembre del 1947, sapevano benissimo quel che facevano: e lo facevano con grande equilibrio, con straordinaria coscienza.
Nel '47, i fuochi covavano ancora sotto la cenere e le ferite erano ancora vive, brucianti. L'antifascismo aveva un valore assoluto: per qualcuno addirittura religioso. Eppure, al di là della retorica che accompagnava anche tutto ciò (la retorica c'entra sempre) e della forza d'intimidazione esercitata allora da alcuni partiti, era chiaro anzitutto che di antifascismi ne esistevano parecchi (quello liberale o cattolico non era quello socialista o comunista). Ed era chiaro soprattutto che, per coscienze democratiche e istituzioni democratiche il proibire qualcosa era sempre e comunque un vulnus: paradossalmente, la difesa della democrazia che si voleva mettere in atto attraverso una disposizione costituzionale era in contraddizione con lo spirito stesso della democrazia, che - per quanto l'espressione che sto per citare si sia usurata col Sessantotto e dintorni - vieta di vietare.
Non si difende la democrazia con un provvedimento liberticida; non la si tutela resuscitando, sia pur in modo limitato ed eccezionale, lo spettro del «delitto d'opinione». Una democrazia non può vietare alcuna manifestazione di libertà di pensiero: può solo inquadrarla in un sistema di leggi che le impedisca di sviluppare potenzialità negative. I Padri della Costituzione lo sapevano: e difatti incapsularono quella norma velenosa - che tra l'altro non spendeva nemmeno una parola non diciamo a condannare, ma neppure a definire il fascismo: e si limitava al divieto di riorganizzazione di un partito disciolto, non di creazione di altri nuovi partiti eventualmente simili o analoghi (difatti nacque il MSI) - nel contesto di una «Disposizione Transitoria e Finale» (intendendo questo secondo aggettivo nel senso non già di «definitivo e irreversibile», bensì di «conclusivo del documento»: non dell'argomento). Ma, nel pensiero dei Padri, quanto a lungo avrebbe dovuto durare la «transitorietà» della XII Disposizione? Evidentemente, finché i tempi non fossero mutati e finché non fosse maturata una definitivamente solida coscienza democratica.
Questa considerazione consente di tornare al primo dei piani del discorso dai quali siamo partiti: la questione politica e pratica. Viviamo in un tempo di volgarità, di equivoci, di violenze. Un tempo di scarsa cultura e dunque di scarsa riflessione: e, in cambio, di spregiudicate mistificazioni. Ammettiamo pure l'impossibile: vale a dire che il Parlamento, a maggioranza qualificata (il 66%, necessario alle modifiche costituzionali), accogliesse la proposta d'abrogazione della XII Disposizione. Chi si prenderebbe la briga della «Rifondazione Fascista»? Quale e quanta parte della popolazione italiana se ne sentirebbe attratta o interessata? E, soprattutto, su quali basi si riannoderebbero le fila di un discorso tragicamente interrotto sessantotto anni fa (alludiamo al Partito Nazionale Fascista, mentre ad esempio il MSI si rifaceva semmai al Partito Fascista Repubblicano e alla repubblica Sociale)? Che «modello fascista» si adotterebbe? Il solo che al giorno d'oggi avrebbe qualche chance di successo sarebbe un mostriciattolo xenofobo e razzista: un abito che il fascismo indossò nella seconda parte della sua esistenza e che preluse alla sua rovina.
Personalmente, credo che nel suo valore politico originario il fascismo fosse essenzialmente un esperimento di convergenza e di compatibilità della valorizzazione dell'identità nazionale insieme con la giustizia sociale. In altri termini, il programma dei Fasci di Combattimento del '19, quello «di San Sepolcro», ch'era piaciuto anche a Nenni, a Salvemini e a Toscanini. Sarebbe poi così «desueto», così inattuale, un programma di quel genere: o meglio, al di là di molti punti che lo renderebbero anacronistico, sarebbe inattuale lo spirito che lo animava? Forse no: solo, dubito che interesserebbe a qualcuno. Men che mai a quanti oggi, osino o meno ammetterlo o proclamarlo, credono di sentirsi «fascisti».
Ecco perché ritengo che la proposta dei cinque parlamentari, senza dubbio plausibile e legittima sul piano della democraticità, sia inattuabile in quanto inattuale e intempestiva. La nostra democrazia, fondata e auspicata nel 1947, è maturata alla meglio fino a destrutturarsi rapidamente a cominciar dagli Anni Settanta e a rovinare dagli Anni Novanta in poi. Non dico che non si può abrogare la XII Disposizione perché i tempi non sono ancora maturi: sostengo che non lo sono più, che il frutto della democrazia italiana è maturato troppo, vale a dire che è marcito. Verrà quindi per naturale avvicendamento l'inverno di questa democrazia calpestata e tradita: non so che aspetto avrà, ma so che verrà. Poi, forse, volverá cantando primavera, come diceva il vecchio inno falangista. Ma quando e come, non lo so. Allora, chi vivrà, vedrà. Allora, forse, vi saranno condizioni di maturità e di sicurezza della libertà di tutti tanto forti da consentire quell'abrogazione e chissà quali altre belle cose. Ora, no. Non possiamo permettercelo. Non lo meritiamo.
(di Franco Cardini)
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