Fra il 1941 e il 1944 scrisse una trentina di lettere, oggi per la prima volta tradotte in Italia, compresa quella relativa alla separazione geografico-razziale della Francia già ricordata, e che non venne pubblicata perché ritenuta «eccessiva» dalla direzione di Je suis partout; rilasciò una dozzina di interviste, ripubblicò i suoi pamphlet, partecipò a conferenze, tenne contatti con le autorità tedesche. E però aveva qualche fondamento di verità la sua linea di difesa del «non aver collaborato». Perché non fu nel libro paga di giornali o movimenti, perché la critica militante nazista trovava troppo nichilista il suo pensiero, perché in sedute conviviali più o meno pubbliche la sua vena esplodeva sinistra, prefigurando scenari catastrofici e rese di conti epocali, perché si adoperò per salvare qualche vita e omise di denunciare qualche gollista poco smaliziato, e perché alla fine sembrò che con i tedeschi avesse fornicato solo lui.
Cantore, di parte, di un continente messo a ferro e a fuoco in un epocale regolamento di conti, sotto le mentite spoglie del cronista Céline racconta la fine di un’idea di Europa cui ha creduto e per la quale si è battuto: razziale, antidemocratica, panica e pagana, anti-moderna e mitica.
Scrittore anti-materialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. L’ideale ariano che egli propugna, l’abbiamo visto, fino a voler dividere la Francia in due, una suralgerina, l’altra nordica, e che altri si incaricheranno di mettere bestialmente in pratica, si trasformerà in beffa allorché, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante 17 mesi di cella non un solo dannato fottuto dei 500 milioni di ariani d’Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani!».
Quando si predica la purezza c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te. L’ebreo, nell’allucinazione celiniana, finisce però col perdere un’identità razziale precisa, finisce con il trasformarsi in un simbolo: ebreo è il clero bretone, ebreo il conte di Parigi, ebreo è Maurras, ebreo il Papa, ebrei i re di Francia, ebrei gli atei, ebreo Pétain. Gli ebrei sono tutti, anche Céline.... È l’opposto di quell’«uomo nuovo», di quel «barbaro ritrovato» di cui si fa alfiere... Ma dietro al razzismo c’è anche una questione di stile, come la lettera su Marcel Proust alla Révolution nationale di Lucien Combelle, del febbraio 1943, mette bene in evidenza: «Lo stile Proust? È semplicissimo. Talmudico.
Il Talmud è imbastito come i suoi romanzi, tortuoso, ad arabeschi, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Per quale verso prenderlo? Ma al fondo infinitamente tendenzioso, appassionatamente, ostinatamente. Un lavoro da bruco. Passa, viene, torna, riparte, non dimentica nulla, in apparenza incoerente, per noi che non siamo ebrei, ma riconoscibile per gli iniziati. Il bruco si lascia dietro, come Proust, una specie di tulle, di vernice, che prende, soffoca riduce e sbava tutto ciò che tocca - rosa o merda. Poesia proustiana. Quanto alla base dell’opera: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: individuazione delle élites imputridite, nobiliari, mondane, invertiti eccetera, in vista del loro massacro. Epurazioni. Il bruco vi passa sopra, sbava, le fa lucenti. I carri armati e le mitragliatrici fanno il resto. Proust ha assolto il suo compito». Conclusione: nel 1943 l’autore della Recherche avrebbe applaudito la sconfitta tedesca a Stalingrado...
(di Stenio Solinas)
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