Il domani appartiene al Noi. Tale il titolo del libro scritto da Federico Eichberg e Angelo Mellone, il cui sottotitolo scandisce 150 passi per uscire dal presentismo (Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011, pp. 180, 14 euro). Un sottotitolo che suona come una sacrosanta promessa: non c’è dubbio che sia necessario uscire dalla “deriva presentista” fatta di piccoli e bassi egoismi, di mancanza di capacità di comprendere il passato e di progettare il futuro, di voglia di apparire e di possedere senza nessun riguardo per l’essere (vi ricordate del vecchio Erich Fromm?), di bisogno di “visibilità” e di effimero.
Ma rivelatore è il titolo, parafrasi del verso conclusivo di un canto per certe persone e in certi ambienti molto rivelatore e dannatamente serio. E più ancora il Prologo, segnato da due sentenze, la prima delle quali appartiene a don Giussani (e fin qui...) e la seconda a uno – ebbene, sì! – dei miei più cari e venerati Maestri, il “fascista di sinistra” (quasi un fasciocomunista) Beppe Niccolai, leggendario deputato missino di Pisa degli anni Sessanta-Settanta rispetto al quale Bordiga era un liberista.
«Il domani appartiene a noi» era il verso finale ed entusiasticamente reiterato di una bella canzone, il cui testo ricordava, su una tastiera dall’elegiaco- romantico all’eroico, un Lied tedesco. Et pour cause. La sua musica era difatti quella di un bel canto eseguito da un ragazzo della Hitlerjugend, reso celebre fin dagli anni Settanta perché parte di una scena-chiave del film Cabaret.
In realtà, non apparteneva al vero repertorio nazista: s’intitolava Tomorrow belongs to me ed era stata composta dai due originali, formidabili autori della colonna sonora del film, John Kander e Fred Ebb.
Quella canzone, con un testo più o meno liberamente tradotto in italiano, divenne l’inno ufficioso dei “Campi Hobbit” della Nuova destra che s’ispirava – ma con molta originalità e libertà – ad Alain de Benoist e a quello ch’era allora il G.r.e.c.e. e che in Italia aveva trovato allora un leader prestigioso e carismatico nel poco più che ventenne Marco Tarchi, un brillante universitario lombardo naturalizzato fiorentino che, come capo dei giovani missini, aveva quasi soffiato a furor di popolo il posto al suo coetaneo Gianfranco Fini, il quale era stato tuttavia insediato d’autorità come delfino di Giorgio Almirante.
Quei ragazzacci scrivevano di letteratura e di musica; amavano Conrad, Melville e Kerouac; organizzavano concerti di rock alternativo; si dicevano nemici al tempo stesso del liberismo americano e del collettivismo sovietico. Non erano clericali e non facevano professione di cattolicesimo militante: ma puntavano a una «risacralizzazione della vita» e per questo il loro autentico nume tutelare era il Tolkien del Signore degli Anelli, il padre degli Hobbit sui quali avevano incentrato il mito fondatore della loro esperienza comunitaria e ai quali dedicavano i loro “Campi”.
Eichberg e Melloni sono tra i più intelligenti sostenitori d’una linea di recupero politico e intellettuale, all’interno del Pdl di almeno qualcosa dell’eredità della “Nuova destra”: alla quale si rifanno tuttavia solo implicitamente, con molta cautela e non senza reticenze. Ma è proprio questo il punto debole del comunitarismo del quale Eichberg e Mellone si fanno testimoni.
La “Nuova destra” tarchiana si era smarcata con decisione dai vecchi limiti e dalle vecchie frontiere tra “destra” e “sinistra”; aveva un taglio decisamente anti-occidentalista; non si occupava di mantener rapporti con la cucina politica del Belpaese; puntava con decisione a un nuovo «patriottismo europeo» che avrebbe dovuto superare l’impasse nel quale il continente era caduto in seguito ai patti di Yalta che lo avevano irrimediabilmente spaccato in due e condannato alla fine di ogni processo di unificazione che non fosse quello di Bruxelles/Strasburgo sorvegliato a vista da Washington e dalla Nato.
Il comunitarismo della “Destra nuova”, il “Noi” proposto da Eichberg e Mellone, punta a rispolverare il micronazionalismo italiano, tacendo del tutto sull’Europa, non dicendo una parola sui grandi problemi del mondialismo e della globalizzazione, parlando sì di comunità ma senza alcun accenno (in tempi di crisi morale e occupazionale dei giovani, in tempi di indignados) alla questione sociale.
Dove andava la “Nuova destra”? Senza dubbio nella direzione di un’identità etico-politica solida, incurante però di approdi politici realistici e concreti. Dov’è andata e dove continua per ora ad andare la “Destra nuova”? Nella direzione di scelte tattiche fondate sul recupero implicito e il più asettico possibile di valori comunitari che sarebbero in sé anche vino nuovo, se non venissero immessi nel vecchio otre di un nazionalismo italiano di stampo superficiale e convenzionale, che tace sui contesti europei e mondiali e che – non pronunziandosi – non disturba i manovratori del centrodestra occidentalista, atlantista, liberista: manovratori ancor in grado di spartire fettine della torta del potere, posti di sottogoverno, incarichi in enti e istituzioni statali, parastatali e privati.
Questo libro è un tentativo intelligente e non privo di spunti degni di discussione: il cui scopo ultimo è però quello di dare una risposta non scandalosa a una certa “nostalgia” non già del futuro, bensì del passato prossimo di una generazione di giovani ormai non più giovanissimi che da adolescenti hanno aderito al sogno di una “destra diversa”, in grado di uscire senza equivoci dal tunnel del neofascismo mantenendo una sua specificità che, nei “Campi Hobbit”, si era espressa nei termini del comunitarismo a forte connotato europeistico, sociale e – sul piano internazionale” – terzaforzistico.
Eichberg e Mellone, nonostante gli elementi di simpatìa e di affinità con l’esperienza dei Campi Hobbit ne restano estranei.
Nipoti dei missini micheliniani degli anni Cinquanta che sognavano la Grande destra con monarchici, liberali e democristiani conservatori, figli della “svolta di Fiuggi” che un buon trentennio più tardi ne portò qualche epigono al potere, essi hanno di fatto poco a vedere con don Giussani; e nulla con Niccolai, che li avrebbe presi (ed essi lo sanno benissimo) a parolacce pisane.
Loro scopo è dare una qualche anima a quel che resta dell’ostinata volontà di dirsi “di destra” da parte di giovani e d’intellettuali ai quali in realtà la “destra” è sempre andata stretta (specie da quando il liberal-liberismo l’ha decisamente egemonizzata), ma che sono in cambio ben consapevoli che in “quella” destra sussistono ancora e nonostante tutto possibilità di gestire un potere e di costruirsi delle carriere.
(di Franco Cardini)
Ma rivelatore è il titolo, parafrasi del verso conclusivo di un canto per certe persone e in certi ambienti molto rivelatore e dannatamente serio. E più ancora il Prologo, segnato da due sentenze, la prima delle quali appartiene a don Giussani (e fin qui...) e la seconda a uno – ebbene, sì! – dei miei più cari e venerati Maestri, il “fascista di sinistra” (quasi un fasciocomunista) Beppe Niccolai, leggendario deputato missino di Pisa degli anni Sessanta-Settanta rispetto al quale Bordiga era un liberista.
«Il domani appartiene a noi» era il verso finale ed entusiasticamente reiterato di una bella canzone, il cui testo ricordava, su una tastiera dall’elegiaco- romantico all’eroico, un Lied tedesco. Et pour cause. La sua musica era difatti quella di un bel canto eseguito da un ragazzo della Hitlerjugend, reso celebre fin dagli anni Settanta perché parte di una scena-chiave del film Cabaret.
In realtà, non apparteneva al vero repertorio nazista: s’intitolava Tomorrow belongs to me ed era stata composta dai due originali, formidabili autori della colonna sonora del film, John Kander e Fred Ebb.
Quella canzone, con un testo più o meno liberamente tradotto in italiano, divenne l’inno ufficioso dei “Campi Hobbit” della Nuova destra che s’ispirava – ma con molta originalità e libertà – ad Alain de Benoist e a quello ch’era allora il G.r.e.c.e. e che in Italia aveva trovato allora un leader prestigioso e carismatico nel poco più che ventenne Marco Tarchi, un brillante universitario lombardo naturalizzato fiorentino che, come capo dei giovani missini, aveva quasi soffiato a furor di popolo il posto al suo coetaneo Gianfranco Fini, il quale era stato tuttavia insediato d’autorità come delfino di Giorgio Almirante.
Quei ragazzacci scrivevano di letteratura e di musica; amavano Conrad, Melville e Kerouac; organizzavano concerti di rock alternativo; si dicevano nemici al tempo stesso del liberismo americano e del collettivismo sovietico. Non erano clericali e non facevano professione di cattolicesimo militante: ma puntavano a una «risacralizzazione della vita» e per questo il loro autentico nume tutelare era il Tolkien del Signore degli Anelli, il padre degli Hobbit sui quali avevano incentrato il mito fondatore della loro esperienza comunitaria e ai quali dedicavano i loro “Campi”.
Eichberg e Melloni sono tra i più intelligenti sostenitori d’una linea di recupero politico e intellettuale, all’interno del Pdl di almeno qualcosa dell’eredità della “Nuova destra”: alla quale si rifanno tuttavia solo implicitamente, con molta cautela e non senza reticenze. Ma è proprio questo il punto debole del comunitarismo del quale Eichberg e Mellone si fanno testimoni.
La “Nuova destra” tarchiana si era smarcata con decisione dai vecchi limiti e dalle vecchie frontiere tra “destra” e “sinistra”; aveva un taglio decisamente anti-occidentalista; non si occupava di mantener rapporti con la cucina politica del Belpaese; puntava con decisione a un nuovo «patriottismo europeo» che avrebbe dovuto superare l’impasse nel quale il continente era caduto in seguito ai patti di Yalta che lo avevano irrimediabilmente spaccato in due e condannato alla fine di ogni processo di unificazione che non fosse quello di Bruxelles/Strasburgo sorvegliato a vista da Washington e dalla Nato.
Il comunitarismo della “Destra nuova”, il “Noi” proposto da Eichberg e Mellone, punta a rispolverare il micronazionalismo italiano, tacendo del tutto sull’Europa, non dicendo una parola sui grandi problemi del mondialismo e della globalizzazione, parlando sì di comunità ma senza alcun accenno (in tempi di crisi morale e occupazionale dei giovani, in tempi di indignados) alla questione sociale.
Dove andava la “Nuova destra”? Senza dubbio nella direzione di un’identità etico-politica solida, incurante però di approdi politici realistici e concreti. Dov’è andata e dove continua per ora ad andare la “Destra nuova”? Nella direzione di scelte tattiche fondate sul recupero implicito e il più asettico possibile di valori comunitari che sarebbero in sé anche vino nuovo, se non venissero immessi nel vecchio otre di un nazionalismo italiano di stampo superficiale e convenzionale, che tace sui contesti europei e mondiali e che – non pronunziandosi – non disturba i manovratori del centrodestra occidentalista, atlantista, liberista: manovratori ancor in grado di spartire fettine della torta del potere, posti di sottogoverno, incarichi in enti e istituzioni statali, parastatali e privati.
Questo libro è un tentativo intelligente e non privo di spunti degni di discussione: il cui scopo ultimo è però quello di dare una risposta non scandalosa a una certa “nostalgia” non già del futuro, bensì del passato prossimo di una generazione di giovani ormai non più giovanissimi che da adolescenti hanno aderito al sogno di una “destra diversa”, in grado di uscire senza equivoci dal tunnel del neofascismo mantenendo una sua specificità che, nei “Campi Hobbit”, si era espressa nei termini del comunitarismo a forte connotato europeistico, sociale e – sul piano internazionale” – terzaforzistico.
Eichberg e Mellone, nonostante gli elementi di simpatìa e di affinità con l’esperienza dei Campi Hobbit ne restano estranei.
Nipoti dei missini micheliniani degli anni Cinquanta che sognavano la Grande destra con monarchici, liberali e democristiani conservatori, figli della “svolta di Fiuggi” che un buon trentennio più tardi ne portò qualche epigono al potere, essi hanno di fatto poco a vedere con don Giussani; e nulla con Niccolai, che li avrebbe presi (ed essi lo sanno benissimo) a parolacce pisane.
Loro scopo è dare una qualche anima a quel che resta dell’ostinata volontà di dirsi “di destra” da parte di giovani e d’intellettuali ai quali in realtà la “destra” è sempre andata stretta (specie da quando il liberal-liberismo l’ha decisamente egemonizzata), ma che sono in cambio ben consapevoli che in “quella” destra sussistono ancora e nonostante tutto possibilità di gestire un potere e di costruirsi delle carriere.
(di Franco Cardini)
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