lunedì 8 agosto 2011

Come nell'antica Roma gli Usa aspettano l'arrivo dei "barbari"


L’intervista di Paul Kenne­dyal Corriere di domeni­ca 6 agosto ripropone il tema del declino e caduta dei grandi Imperi tema ispirato al ca­polavoro di Edward Gibbon «De­cline and fall of the Roman Empi­re ». Ci sono forse orde barbariche ai confini dell’Occidente pronte a travolgere ogni difesa a saccheg­giare chiese e a violentare vergini consacrate? No, soltanto un pro­blema di deficit e un declassa­mento del grado di solvibilità del debito pubblico americano per­petrato (peraltro con clamoroso errore aritmetico) da Standard & Poor da tripla A ad AA+. Eppure tutti aspettano con il fiato sospe­so quello che succederà domatti­na, lunedì sui mercati finanziari.

Nell’era informatica non è più questione di orde a cavallo: basta un clic sul computer per mettere in ginocchio una nazione di cen­to o duecento milioni di abitanti. E il dito su quel mouse lo può met­ter chiunque anche noi semplici privati cittadini per abbandona­re un btp in cambio di un meno redditizio ma più sicuro bund.

Dal 1941 ad oggi non era mai suc­cesso che il tesoro americano su­bisse un declassamento, né era mai incorso in una serie di crisi economiche una peggio dell’al­tra dal 1929. Siamo dunque al de­clino preludio alla caduta dell'Im­pero americano? E si possono fa­re confronti con ciò che accadde all'impero romano nel quinto se­colo? Edward Luttwak, anni fa, scris­se 'La grande strategia dell'impe­ro romano' per mostrare come gli antichi signori del mondo avessero saputo saggiamente am­ministrare la loro decadenza e Paul Kennedy ribadisce che tutti gli imperi sono destinati a decli­nare e a cadere, solo questione di tempo. L'importante è che si trat­ti di un declino lento e guidato. I crolli improvvisi sono sempre traumatici. L'apice dello zio Sam è stato la discesa sulla lu­na dell'astronave Apollo e molti quel giorno co­minciarono a fantastica­re di voli su Marte. Si sbaglia­vano: il progresso del terzo mil­lennio sarebbe stato di tipo informatico, ossia il potere sarebbe stato di chi sa prendere decisioni nel tempo di un clic. Dif­ficile dunque fare paragoni con l'impero romano che per appren­dere di un cedimento della fron­tiera nel suo centro decisionale doveva attendere almeno due set­timane, tempo brevissimo tutta­via per quei tempi lontani.

Ma la finanza ebbe un ruolo in quei frangenti? Ci furono declassa­menti? In un certo senso: l'economia è sempre fondamentale nella vita di uno stato e nell'efficienza di un esercito ma le condizioni sono qui, come già si è detto, molto di­verse. L'impero romano dovette sostenere una pressione sui confi­ni di trecento anni quasi ininter­rotti con uno sforzo militare im­mane. Sotto Adriano l'esercito contava trentasette legioni schie­rate sui confini e sulle retrovie, con un numero di soldati non di molto inferiore a quello dell'eser­cito americano di oggi. Il costo di un simile apparato impegnato continuamente a rintuzzare inva­sioni su una frontiera che­si esten­deva dalla Britannia al golfo persi­co era iperbolico. Da dove veniva­no le risorse? Soltanto dall'econo­mia interna: gli scambi con l'oriente erano a senso unico, e cioè denaro che usciva dall'impe­ro romano per acquistare oggetti preziosi dall'India e dalla Cina. Nei tempi più bui si arrivò a fonde­re le statue e i monumenti per ot­tenere il bronzo per coniare le mo­nete con cui pagare gli stipendi dei soldati. Sappiamo addirittura che i comandi di legione avevano addirittura le loro zecche che coniavano denaro che si aggiunge­va al circolante e tendeva a gene­rare inflazione. Un po' come suc­cede ora quando la FED decide di stampare dollari da pompare nel sistema e consentire di pagare (anche) le spese militari sempre crescenti. A livello sociale le clas­si­dirigenti tesero a scaricare il pe­so della spesa militare sulle classi meno abbienti che si sentirono oppresse. Certi intellettuali si spinsero a dire che era meglio fug­gire fra i barbari che restare sotto il giogo fiscale dell'Impero. L'ec­cessiva pressione fiscale uccise il patriottismo e alla fine ci si ridus­se ad arruolare barbari per com­battere e respingere altri barbari.

Dal canto loro le classi ricche americane preferiscono che si li­mitino le spese sociali piuttosto che aumentare le tasse ai più ab­bienti e sono disposte a far ri­schiare il fallimento allo stato pur di ottenere il loro scopo. Ma qui i paragoni si fermano. Grazie a dio il tempo degli eserci­ti e delle cannoniere è fi­nito anche se il control­lo di focolai locali di guerra comporta spese spaventose che a loro vol­ta alimentano un'industria bellica fiorente. L'impero americano inoltre non è un impero espansivo né lo è più la vecchia Europa che avrebbe ancora molto da dire se potes­se integrare ancora di più le sue politiche e la sue economie mentre la Cina, monolitica e autocratica, potenzial­mente forte di dieci milioni di soldati po­trebbe in teoria domi­nare il mondo. Ma non ci pensa nemme­no.

Tutte le economie dipendono da tutte e so­no alla continua ricerca di un equilibrio difficilissi­mo. C'è che pensa che se l'impero romano avesse tro­v­ato il modo di resistere anco­ra cinquant'anni avrebbe po­tuto bypassare il medioevo. Ipotesi audace quanto affasci­nante e comunque impossibile da verificare. L'attuale Impero d'Occidente vive di sicuro un momento critico ma ha le risorse, i cervelli e tecnologie per superarlo. Parafra­sando una risposta che Hitler avrebbe dato a chi gli aveva detto di non sottovalutare la forza del papa e del Vaticano si potrebbe di­re: 'Quante divisioni corazzate hanno 'Standard and Poor?'

(di Valerio Massimo Manfredi)

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