Ma come mai è proprio la Romagna a rivelarsi terra d’elezione di questa vicenda dai tratti di tragedia greca? Già all’inizio dell’Ottocento George Byron aveva avuto modo di sperimentare, durante il suo lungo soggiorno a Ravenna, la particolarità di quella terra di ribelli e proprio lì il poeta, che morirà da eroe a Missolungi per la libertà dei greci, si sentì e si disse “carbonaro”. Così come anche lo scrittore e uomo politico Massimo d’Azeglio comprese che i romagnoli altro non erano che amanti della libertà, refrattari ai governi dispotici. La Romagna era stata d’altronde il teatro dell’epopea di Stefano Pelloni detto il Passatore, il fuorilegge che imperversò tra il 1849 e il 1851 tra le province pontificie, tenendo in scacco le polizie austriache e papaline. Sarà il futurista Bruno Corra a celebrarne la figura in un romanzo del 1929 e l’ultima lettera del Passatore immaginata dallo scrittore forse descrive al meglio tutto uno stato d’animo: “Quando la riceverete – sono le parole del brigante – io sarò morto: dite al mio babbo e alla mia mamma che Stefano Pelloni è morto a testa alta, senza una sola svanzica da parte. I denari che ho preso dalle tasche dei signori, li ho sempre passati nelle tasche dei poveri. E io non avrei mai fatto questa vita se non avessi trovato sulla mia strada un pretaccio velenoso e due porche spie”. Lo scrittore Raffaele Nigro, che alla figura dei fuorilegge ha dedicato un brillante studio – “Giustiziateli sul campo” (Rizzoli) – individua proprio nella vicenda del Passatore l’archetipo di un preciso ribellismo di tipo politico, spiegando che furono i protagonisti del Risorgimento a costruirne la popolarità: “Soprattutto Garibaldi, il più byroniano dei ribelli politici: da New York, dove è fuggito per scampare alle minacce di morte, Garibaldi fa sapere agli italiani che Pelloni è un patriota e in questo modo instaura un clima di simpatia che durerà per tutto l’Ottocento e oltre, fino a Giovanni Pascoli che conierà nella poesia ‘Romagna’ l’immagine del brigante ‘cortese / re della strada, re della foresta’…”.
In questo humus fu più che naturale un crescendo di sovversivismo protonovecentesco confuso tra il repubblicano, l’anarchico e il socialista. Non a caso Mussolini e Bombacci frequenteranno, anche se in anni diversi, il convitto magistrale di Forlimpopoli intitolato a Giosuè Carducci e il cui direttore era il fratello del poeta, Valfredo, mangiapreti che aveva chiesto l’assenza dell’insegnamento religioso. In questa stessa Romagna il popolino celebra la figura di Amilcare Cipriani, l’uomo più incarcerato d’Italia, il libertario romagnolo che aveva partecipato alla Comune di Parigi, e un certo anarchismo popolare trova adepti soprattutto nella classe artigianale, come nel caso di Alessandro, il fabbro papà di Mussolini. Lo stesso Benito ricorderà più volte i mesi trascorsi in prigione da lui (a Forlì con l’amico Pietro Nenni, dopo lo sciopero generale del 1911), ma anche dal padre Alessandro, ben due volte, e dal nonno Luigi, facendo capire che ogni rivoluzionario deve avere alle spalle un periodo passato in galera. Il leader del fascismo ci teneva a sottolineare – lo preciserà in più occasioni – che veniva da due generazioni di ribelli finiti dietro le sbarre.
Su questo particolare scenario “Sangue romagnolo” intreccia le vite dei quattro amici. Tutti e quattro abbracciano nell’adolescenza la causa socialista cercando di realizzare il proprio sogno comune: la speranza di cambiare la misera realtà in cui erano nati, l’orgoglio di vivere una vita degna di essere vissuta e di realizzare un mondo diverso. Poi, negli anni dell’interventismo, le loro strade si dividono e, dopo la Grande Guerra, le camicie nere di Mussolini deridono nelle loro canzoni Bombacci, amico e allievo di Lenin e fondatore a Livorno nel 1921 del Partito comunista d’Italia.
Leandro Arpinati, a sua volta, da militante socialista e sindacalista diventa un fascista della prima ora, assumendo l’incarico di podestà di Bologna e di sottosegretario mentre il suo fraterno amico Torquato Nanni, non abbandonerà mai l’originaria e adolescenziale scelta socialista. E se Mussolini aiuta economicamente il comunista Bombacci e ne verrà aiutato per far in modo che l’Italia fascista fosse il primo stato a riconoscere l’Urss e a stabilire con Mosca rapporti economici, il fascista Arpinati salva il socialista Nanni che stava per essere linciato dagli squadristi fiorentini. Non solo: lo stesso Torquato Nanni scriverà nel 1915 la prima biografia di Mussolini, quando il duce aveva solo 32 anni. D’altronde, il fascismo delle origini era un movimento di contestazione extraparlamentare nel cui programma si reclamavano “cose di sinistra” come la repubblica, la costituente, le otto ore lavorative, le libertà sindacali, il voto per le donne e persino l’abolizione della proprietà privata. Bombacci verrà però espulso dal Partito comunista. Mussolini sarà costretto a scelte geopolitiche dubbie e in contraddizione con la sua formazione ideale. Arpinati si opporrà alla deriva conformistica e illiberale del regime in nome “delle ragioni rivoluzionarie del fascismo oltre che delle proprie idee liberal-libertarie”. E anche lui verrà espulso dal suo partito, finirà al confino e, nell’ultima fase della sua vita, si ritirerà come Cincinnato nella sua tenuta agricola di Malacappa. Poi, per tutti e quattro, anche per il “sempre socialista” Nanni, che morirà da eroe per caso solo per fedeltà a un’amicizia, il tragico epilogo dell’aprile 1945.
Negli anni del secondo Dopoguerra i vecchi redattori dell’Avanti! raccontavano spesso del turbamento di Pietro Nenni di fronte a quei fatti. Quando, il 28 aprile del ’45, un giornalista entrò nella sua stanza di direttore del giornale del Psi per annunciargli la morte del suo amico di gioventù (e compagno di cella) Benito Mussolini, lui ammutolì e guardò a lungo nel vuoto. “Direttore, è tardi, bisogna fare il titolo”, gli ricordarono. E Nenni, assente e con un filo di voce, rispose: “Ah, sì, provate con ‘Giustizia è fatta’…”. Ma non ne sembrava affatto convinto. Triste, si rinchiuse in silenzio nella sua stanza, senz’altro rievocando le battaglie comuni della loro giovinezza e forse pensando, dopo quei giorni di tragedia, al futuro possibile di quel loro comune impasto di passione politica in una Italia che si stava apprestando a diventare democratica e repubblicana.
(di Luciano Lanna)
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