venerdì 21 ottobre 2011

Le pretese dinastiche di un liberatore che non conosceva la libertà


Il fato ha voluto che Muammar Gheddafi venisse ucciso, armi in pugno, a cento anni esatti dalla guerra italiana in Libia. Lui che sulle ferite del colonialismo aveva costruito la propria immagine di liberatore (fino a giungere alla leadership dell’Unione africana), rivendicando perfino un’ascendenza etnica e archetipica di conio cartaginese, perciò imperialista per istinto predatorio e mercantilista per vocazione.

Troppe parti ha giocato Gheddafi sul proscenio internazionale per ridurre la sua uscita di scena all’epilogo di una tirannia unidimensionale. Il rais libico è stato molto più di un autocrate e qualcosa di meno rispetto al federatore di genti e interessi continentali che aspirava a diventare. L’occidente lo ha conosciuto come il giovane promettente militare, laico e socialisteggiante, capace di deporre un re (Idris) nella terra delle tribù patriarcali in lotta nel deserto. Era il 1969 e quella si rivelò soltanto la prima delle sue pelli, presto avremmo fatto l’abitudine alla spregiudicatezza assassina d’un persecutore di massa: i clan rivali della Cirenaica, gli ex colleghi in divisa protagonisti del colpo di stato, chiunque intorno a lui fosse sospettato di voler svettare più in alto di una spiga di grano. Un capo degno del titolo, Muammar Gheddafi, con il quale gli stati confinanti hanno dovuto disputarsi lo scrigno del petrolio africano e quel poco di ortodossia islamista (assai improvvisata nella dottrina del Libro Verde scritto e monumentalizzato dal rais) utile a vestire d’idealità l’odio anti occidentale.

Anche nel ruolo di vindice e liberatore dalle catene di un occidente utile in quanto nemico, Gheddafi ha espresso il meglio e il peggio di quello che in antico era il regno di Numidia, luogo di sentenze di morte, fedeltà multiple (da Annibale a Giugurta) e affari d’oro. E’ stato capace di cacciare gli italiani stanziati in Libia per sentirsi degno delle ridondanti decorazioni panafricaniste appuntate sul suo doppiopetto militare, ma lo ha fatto nel momento stesso in cui trafficava fruttuosamente con le nostre compagnie petrolifere e i nostri servizi segreti. Negli anni Ottanta ha commissionato omicidi intercontinentali, ha attentato alle coste italiane pur presentendo un sottofondo di complicità nel nostro ceto politico di allora, così specchiatamente filo arabo; ha sfidato i bombardamenti di Ronald Reagan e fatto brillare il volo Pan Am di Lockerbie, assassinando gli innocenti, per poi fermarsi dopo la guerra di Bush, un attimo prima dell’abisso. A Reagan è sopravvissuto, al risentimento di Londra ha saputo opporre contratti faraonici per British Petroleum. Conosceva la legge non scritta secondo la quale non c’è ricchezza che non possa temperare la memoria del sangue versato. E se non fosse stato il più furbo dei tiranni tardo novecenteschi, Gheddafi, non avrebbe capito per tempo che la sua grandeur nucleare era destino che soffocasse nel cappio stretto intorno al collo di Saddam Hussein. Il senso dell’orientamento non si può dire gli sia mancato. E quando non era direttamente la sua voce oltretombale a proclamare la doppiezza delle intenzioni, quando non erano i suoi occhi fondi a cercare complicità, la sua cupa luce di grandezza era espressa dall’ornamento circostante. Dal tendaggio beduino di un capo senza fissa dimora e dunque abitante di ogni altrove, dal corredo epico delle amazzoni al seguito, dal clangore dei cavalli corruschi montati dai recalcitranti suoi beduini. Abitudini regali, perfino sensualità nel corteggio delle predilette e dei prediletti che lo avrebbero tradito (pour cause). In questo sfoggio di pretese dinastiche da parte di un aspirante liberatore che non conosceva la libertà moderna era racchiuso il prologo in cielo dell’ultimo atto. I suoi persecutori anglo-francesi hanno trovato il momento perfetto per fare della primavera araba un regolamento di conti senza via d’uscita. I loro complici, Italia compresa, Stati Uniti compresi, hanno visto nella guerra civile libica un male necessario che avvicendava un altro male non più indispensabile. I suoi giustizieri tribali, Gheddafi, possono averlo anche ammirato senza vergogna.

(di Alessandro Giuli)

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