Il sistema dei partiti è un "ircocervo post ideologico" inconciliabile con il pragmatismo europeo, ha scritto con la consueta lucidità (e spietatezza analitica) il nostro direttore Sechi, riferendosi in particolare al Pd ma, per analogia estensibile a tutti i soggetti. Definizione della crisi delle forze politiche raramente è stata altrettanto appropriata. Quello che è avvenuto nel loro ambito, nel crepuscolo del "secolo breve" che li ha visti dominatori assoluti della scena politica, è difficile da descrivere. Ci vorranno decenni, forse, per comprendere le ragioni profonde di una dissoluzione (perché di questo si tratta) che ha lasciato un vuoto profondo colmato dai cosiddetti "poteri forti", stando ad una sorta di "leggenda nera", che si sono serviti della finanza e degli organismi pubblici fuori controllo per agire da supplenti dei partiti incapaci di comprendere la realtà italiana e, dunque, inadatti a riformarla come esigevano i tempi e reclamavano i cittadini i quali, non a caso, nei confronti della politica in generale sono a dir poco diffidenti quando non apertamente ostili.
Bel capolavoro, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, hanno combinato le forze politiche. Se fino a primi anni Novanta, alla vigilia del terremoto di Tangentopoli, avevano una loro dignità (magari più formale che sostanziale), dopo, quando è maturato il tempo della grande svolta, si sono rivelate spaesate e timide di fronte alla questione che stava davanti ad esse: riformarsi o perire. Hanno preferito galleggiare, industriandosi per non apparire sprovvedute al cospetto dell'elettorato, mettendo in piedi un bipolarismo muscolare, eppure di plastica, fondato sul berlusconismo e l'antiberlusconismo. Da una contesa di tal natura, durata circa diciassette anni, cos'altro poteva venir fuori se non la decomposizione del sistema che oggi si palesa sotto i nostri occhi in tutta la sua drammaticità?
È tutt'altro che incredibile come i partiti non siano stati capaci di capire e perfino di scorgere i profili della crisi epocale che avrebbe travolto l'Occidente. Come avrebbero potuto, del resto, privi di culture di riferimento, staccati dalla realtà, alieni dal tuffarsi nei fenomeni innovativi e non governati delle società complesse dove tutto accade così in fretta da esigere rapidità di analisi e di decisioni? Rifiutando di riformarsi e preferendo, nella migliore delle ipotesi, imbellettarsi tanto per gabbare l'opinione pubblica, i partiti sono giunti all'approdo naturale: l'irrilevanza, certificata peraltro dalle istituzioni sovranazionali che loro stessi, pensando di salvarsi la coscienza, hanno promosso ed attivato nel nome di un malinteso europeismo. Dove si assumono decisioni i partiti non ci sono, eppure la politica è tutt'altro che assente. Non è derivata da processi di intervento democratico in senso classico, ma è pur vero che se il partitismo non ha esercitato per come avrebbe dovuto e potuto il suo ruolo era inevitabile che altri, necessariamente, avrebbero riempito il vuoto. Per i partiti, sempre che siano capaci di riconoscersi, si apre dunque una nuova stagione. Quella dell'umile e, speriamo, proficua riflessione su se stessi. Prima di emettere pagelle sull'operato degli altri, si guardino, dunque, al proprio interno: hanno il tempo per farlo approfittando della "tregua" imposta dalle circostanze e ridiventino quel che erano nello spirito, mentre dovrebbero darsi strutture adeguatamente avanzate rispetto ai cambiamenti in atto.
Se vorranno invece perpetuare guerre virtuali che nulla hanno a che vedere con le trasformazioni che necessitano di essere governate, si rintanino pure nei loro angusti spazi ottocenteschi, ma non si lamentino dell'invadenza del potere tecnocratico. Per essere chiari: ci piacerebbe che la politica si servisse dei tecnici, come avviene nelle democrazie mature, e guidasse le società affluenti tra i marosi delle crisi sempre più ricorrenti perché consustanziali alla modernità. Affinché ciò accada i partiti devono obbligatoriamente riformarsi, caratterizzarsi culturalmente, espellere le tossine che li hanno minati nel profondo. Solo dopo potranno riprendere il posto che gli compete nel contesto sociale ed aspirare alla guida delle nazione. Scorciatoie, come si riteneva erroneamente all'alba dei Novanta, non ce ne sono più. L’epocale crisi economico-finanziaria non tarderà ad evidenziare preoccupanti effetti politici dai quali dipenderanno le dinamiche sociali future non prive di conflitti anche gravi. Non mi sembra che i partiti politici siano attrezzati alla bisogna. Invece di abbaiare alla luna farebbero bene a ripensarsi alla luce delle criticità che non possono essere domate con recriminazioni puerili.
(di Gennaro Malgieri)
Bel capolavoro, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, hanno combinato le forze politiche. Se fino a primi anni Novanta, alla vigilia del terremoto di Tangentopoli, avevano una loro dignità (magari più formale che sostanziale), dopo, quando è maturato il tempo della grande svolta, si sono rivelate spaesate e timide di fronte alla questione che stava davanti ad esse: riformarsi o perire. Hanno preferito galleggiare, industriandosi per non apparire sprovvedute al cospetto dell'elettorato, mettendo in piedi un bipolarismo muscolare, eppure di plastica, fondato sul berlusconismo e l'antiberlusconismo. Da una contesa di tal natura, durata circa diciassette anni, cos'altro poteva venir fuori se non la decomposizione del sistema che oggi si palesa sotto i nostri occhi in tutta la sua drammaticità?
È tutt'altro che incredibile come i partiti non siano stati capaci di capire e perfino di scorgere i profili della crisi epocale che avrebbe travolto l'Occidente. Come avrebbero potuto, del resto, privi di culture di riferimento, staccati dalla realtà, alieni dal tuffarsi nei fenomeni innovativi e non governati delle società complesse dove tutto accade così in fretta da esigere rapidità di analisi e di decisioni? Rifiutando di riformarsi e preferendo, nella migliore delle ipotesi, imbellettarsi tanto per gabbare l'opinione pubblica, i partiti sono giunti all'approdo naturale: l'irrilevanza, certificata peraltro dalle istituzioni sovranazionali che loro stessi, pensando di salvarsi la coscienza, hanno promosso ed attivato nel nome di un malinteso europeismo. Dove si assumono decisioni i partiti non ci sono, eppure la politica è tutt'altro che assente. Non è derivata da processi di intervento democratico in senso classico, ma è pur vero che se il partitismo non ha esercitato per come avrebbe dovuto e potuto il suo ruolo era inevitabile che altri, necessariamente, avrebbero riempito il vuoto. Per i partiti, sempre che siano capaci di riconoscersi, si apre dunque una nuova stagione. Quella dell'umile e, speriamo, proficua riflessione su se stessi. Prima di emettere pagelle sull'operato degli altri, si guardino, dunque, al proprio interno: hanno il tempo per farlo approfittando della "tregua" imposta dalle circostanze e ridiventino quel che erano nello spirito, mentre dovrebbero darsi strutture adeguatamente avanzate rispetto ai cambiamenti in atto.
Se vorranno invece perpetuare guerre virtuali che nulla hanno a che vedere con le trasformazioni che necessitano di essere governate, si rintanino pure nei loro angusti spazi ottocenteschi, ma non si lamentino dell'invadenza del potere tecnocratico. Per essere chiari: ci piacerebbe che la politica si servisse dei tecnici, come avviene nelle democrazie mature, e guidasse le società affluenti tra i marosi delle crisi sempre più ricorrenti perché consustanziali alla modernità. Affinché ciò accada i partiti devono obbligatoriamente riformarsi, caratterizzarsi culturalmente, espellere le tossine che li hanno minati nel profondo. Solo dopo potranno riprendere il posto che gli compete nel contesto sociale ed aspirare alla guida delle nazione. Scorciatoie, come si riteneva erroneamente all'alba dei Novanta, non ce ne sono più. L’epocale crisi economico-finanziaria non tarderà ad evidenziare preoccupanti effetti politici dai quali dipenderanno le dinamiche sociali future non prive di conflitti anche gravi. Non mi sembra che i partiti politici siano attrezzati alla bisogna. Invece di abbaiare alla luna farebbero bene a ripensarsi alla luce delle criticità che non possono essere domate con recriminazioni puerili.
(di Gennaro Malgieri)
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