Io non sono molto sicuro che si possa parlare di “stato di eccezione”  per descrivere le circostanze che hanno segnato l’ascesa al potere di  Mario Monti e Lukas Papademos. Ma va comunque ricordato che per Carl  Schmitt, lo stato di emergenza è volto principalmente a rivelare dove si  situa la sovranità. “È sovrano – dice Schmitt – chi decide dello stato  di eccezione”. Nel caso specifico, è ovvio che i mercati finanziari sono  diventati sovrani, come è ovvio che i politici hanno abbandonato il  campo. Gli Stati si sono indebitati per salvare le banche. Dopo di che  finanzieri e banchieri hanno colto l’occasione per investire in  posizioni strategiche in seno all’Unione europea.
Dovremmo pensare che la situazione attuale metta in discussione  l’esistenza stessa dell’Unione europea? Non credo. L’eventuale fine  della moneta unica non è la fine dell’Europa. L’attuale crisi è anche  soprattutto una crisi del debito sovrano. Il problema dell’euro è solo  una circostanza aggravante. E non si deve dimenticare che,  contrariamente a quanto molti pensano, il dollaro si trova ora in una  situazione peggiore rispetto all’euro. Questo significa che è  soprattutto per salvare il dollaro che i mercati finanziari hanno  ingaggiato una guerra contro l’euro.
La crisi che stiamo attraversando ha provocato una sorta di criminalizzazione della finanza, posta in antitesi rispetto all’economia reale. Un analista come Aleksandr Dugin ha però criticato questo atteggiamento, sottolineando il fatto che la finanza rappresenta la naturale evoluzione del sistema capitalista e che essa, come il sistema produttivo industriale, segue strategie politiche ben definite – decise nell’ambito dei consessi del Club Bilderberg e della Commissione Trilaterale – che indirizzano le tendenze di base. Quale è la sua opinione al riguardo?
Sono totalmente d’accordo con Alexander Dugin nell’affermare che la logica del profitto è il motore del capitalismo, e di conseguenza la distinzione comunemente fatta tra capitalismo industriale e capitalismo finanziario appare piuttosto artificiale. Non esiste un capitalismo “buono” e uno “cattivo”, non vi è che il capitalismo stesso. Detto questo, non si può negare che il capitalismo si sia evoluto negli ultimi trenta anni seguendo una direzione che ha sempre favorito l’autonomia del settore finanziario. Allo stato attuale, i mercati di scambio contrattano in certi giorni l’equivalente di dieci volte il PIL mondiale, che evidenzia l’entità del distacco con l’economia reale. La globalizzazione ha inoltre contribuito ad incrementare l’influenza dei mercati finanziari a livello planetario. Il capitalismo moderno è un capitalismo “deterritorializzato”, che ha ben poco a che fare – a parte la stessa tendenza a divorare tutto ciò che si ritrova davanti – con il capitalismo della fine del XIX secolo o dell’inizio del ventesimo secolo, che erano ancora legati agli Stati-nazionali. Il “turbo-capitalismo” investe e procede ovunque vi siano condizioni favorevoli. Ecco perché le classi medie, un tempo avvantaggiate dalla crescita economica, ora si trovano minacciate e in via di smantellamento.
Credere anche che il sistema capitalista obbedisca a strategie escogitate in seno al Club Bilderberg e alla Commissione Trilaterale mi sembra molto ingenuo, e anche un pò puerile. Questa inclinazione rappresenta un tratto classico delle “teorie della cospirazione” di destra. Le persone di destra tendono sempre a ridurre il tutto all’azione nociva di un piccolo numero di persone. È per questo che non hanno mai compreso gli effetti sistemici che derivano dalla progettazione di strutture. Organizzazioni come il Club Bilderberg e la Commissione Trilaterale sono al massimo i luoghi della concertazione, insieme con gli strumenti della forma-capitale. Ma non sono luoghi dove si decide. Nessuno sceglie di indirizzare la forma-capitale in una particolare direzione. E’ essa stessa che si sviluppa secondo la sua logica propria, che è la logica dell’illimitato. Il capitalismo è sia un sistema molto efficace di sfruttamento del lavoro, che genera il feticismo delle merci e la reificazione dei rapporti sociali, e un apparato autonomo d’accumulazione illimitata di capitale. Su questo punto, Marx aveva ragione. Quello che afferma sulla natura profonda del capitale potrebbe essere utilmente avvicinato a ciò che ha scritto Heidegger a proposito del Gestell.
Crede che l’uscita di scena di Dominique Strauss Kahn in  seguito all’oscura vicenda di molestie sessuali sia da catalogare nel  settore della cronaca o ritiene invece che contenga un ben definito  significato politico?
Non sono propenso a credere alla teoria del “complotto” politico a danno di Dominique Strauss-Kahn. L’anziano direttore del Fondo Monetario Internazionale ha manifestato da molto tempo una tendenza a invischiarsi in situazioni difficili a causa delle sue abitudini e delle sue ossessioni sessuali. Il fatto è che gli americani sono meno tolleranti rispetto agli europei in merito a questi reati. Nessuno saprà esattamente ciò che è accaduto al Sofitel di New York il 14 Maggio 2011. Quel che è certo è che questo incidente ha rovinato le possibilità di Dominique Strauss-Kahn di essere eletto Presidente della Repubblica francese nella prossima primavera, che credo sia una buona cosa.
La guerra sferrata contro la Libia e le non troppo velate  minacce rivolte contro Siria ed Iran hanno spinto alcuni analisti a  segnalare una soluzione di continuità tra George W. Bush e Barack Obama  per quanto riguarda la messa in atto del famoso “Greater Middle East  Project” elaborato dagli strateghi neoconservatori. Condivide questa  lettura della situazione?
C’è una netta differenza di stile, metodo e temperamento tra George W. Bush e Barack Obama. Le loro rispettive presidenze si sono svolte anche in momenti storici diversi. George W. Bush è arrivato alla Casa Bianca in un momento in cui, dopo il crollo del sistema sovietico, gli Stati Uniti potevano aspettarsi di emergere come l’unica superpotenza mondiale. Nel corso di questa fase “unipolare”, i neoconservatori hanno escogitato un “nuovo secolo americano”.
Questo sogno è crollato, prima con il fallimento delle guerre in Iraq e  Afghanistan, ma anche a causa del crescente ruolo svolto dai paesi  emergenti. Infine, gli Stati Uniti sono stati colpiti duramente dalla  crisi finanziaria globale, che si aggiunge alle loro difficoltà interne e  ora minaccia il ruolo internazionale del dollaro. Per queste ragioni  Barack Obama non ha potuto porsi sulla scia del suo predecessore.
Ma se si vuole comprendere la politica estera degli Stati Uniti, non dobbiamo solamente tener conto della congiuntura storica. Dobbiamo anche ricordare che gli Stati Uniti hanno sostanzialmente mantenuto gli stessi obiettivi di politica internazionale. Che siano guidati da repubblicani o da democratici, che si ritirino nell’isolazionismo o privilegino invece l’interventismo di tipo “wilsoniano”, il loro obiettivo principale rimane sempre quello di promuovere gli interessi del potere del Mare (“isola” americana) a discapito di quelli del potere della Terra (il continente eurasiatico), per prevenire l’apparizione, in qualsiasi parte del mondo, di un concorrente in grado di competere con loro, e di lavorare per l’unificazione planetaria diffondendo in tutto il mondo il loro stile di vita e il loro modello di”sviluppo”. Si potrebbe dire che gli americani hanno la tendenza a considerare che il mondo non diventerà per loro veramente comprensibile finché non sarà stato completamente americanizzato.
Le rivolte che hanno scosso parte significativa del Nord  Africa e del Vicino Oriente hanno diviso il fronte degli analisti in due  fazioni principali; l’una che tende a considerare la voglia di  democrazia quale vero motore della cosiddetta “primavera araba”, mentre  l’altra è portata invece a parlare di “risveglio islamico”. Quale è la  sua personale opinione?
Mi sembra che la questione non si ponga più oggi. I recenti avvenimenti  hanno dimostrato l’errore commesso dagli analisti del primo tipo, dal  momento che sono islamisti, e non sostenitori della “democrazia  liberale” americana, che ha vinto tutte le “libere elezioni” che hanno  avuto luogo lo scorso autunno.
In Marocco, gli islamisti del Partito di Giustizia e Sviluppo (PJD) sono arrivati in testa alle elezioni. In Tunisia, il partito islamista Ennada e i suoi alleati hanno ottenuto più del 50% dei voti. In Egitto, sono la Fratellanza Musulmana e i movimenti salafiti ad imporsi come grandi vincitori delle elezioni, con oltre il 70% dei voti. Si commetterebbe però un errore anche interpretando il successo dei movimenti islamici da un’angolatura esclusivamente religiosa. L’islamismo è, a mio avviso, un fenomeno politico e culturale molto più che religioso in senso stretto, anche se prende in prestito liberamente il linguaggio della religione. Gli islamisti sono coloro i quali ritengono che la decolonizzazione è stata raggiunta, sinora, solo nel campo politico (con la conquista dell’indipendenza da parte delle ex colonie) e, in alcuni casi, anche in campo economico, ma che la decolonizzazione culturale non si sia ancora verificata. L’Islam fa ormai parte dell’identità dei paesi del Maghreb e del Medio Oriente. Si tratta di un elemento fondatore di tale identità che, in quanto tale, va ben oltre la sola religione. In passato, gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto i movimenti islamisti per contrastare l’ascesa del nazionalismo arabo laico, che sospettavano essere troppo legato all’Unione Sovietica al tempo della Guerra Fredda. L’islamismo costituisce oggi soprattutto una rivendicazione identitaria. Che questa rivendicazione si esprima contro le potenze occidentali è nella natura delle cose.
Iran, Israele e la Turchia stanno ridefinendo radicalmente le  proprie posizioni diplomatiche. L’Iran sostiene la Siria di Bashar Al  Assad e avversa irriducibilmente Israele, la Turchia ha abbandonato la  politica di “buon vicinato” inaugurata dal Ministro degli Esteri Ahmet  Davutoglu per scagliarsi contro il regime baathista siriano e per  rompere insanabilmente le relazioni con Israele, mentre Benjamin  Netanyahu appare estremamente rigido sia nei riguardi della Turchia che  dell’Iran che della Siria che di Al Fatah, specialmente dopo la  richiesta di riconoscimento della Palestina avanzata da Abu Mazen in  sede ONU. A cosa crede che sia dovuta questa rivoluzione?
L’unico vero cambiamento riguarda la Turchia, che ha effettivamente  adottato da qualche tempo delle posizioni anti-israeliane, o addirittura  anti-americane, inedite tra i paesi membri della NATO. Ma la reale  portata di questo cambiamento è ancora da determinare. A livello  militare, per esempio, la cooperazione tra Israele e la Turchia sembra  continuare. E ‘probabile che i leader turchi siano abbastanza divisi, e  che dietro le quinte si affrontino diverse fazioni opposte fra loro.  Penso anche che questo nuovo orientamento della politica estera turca  possa significare che la Turchia ha verosimilmente perduto la speranza  di vedere la sua candidatura per l’ingresso nell’Unione Europea  accettata dagli europei.
Pertanto, sfruttando la propria posizione geopolitica, sta sviluppando  una politica “pan-turca” (“Turanista”) verso le repubbliche turcofone  dell’ex Unione Sovietica, e anche nei paesi vicini.
Da questo nuovo corso della politica estera turca l’Iran avrebbe tutto  da guadagnare, non fosse che i due paesi si attestino su posizioni  opposte per quanto riguarda la Siria. Teheran non nasconde il suo  sostegno al presidente Bashar al-Assad, mentre i turchi, al contrario,  portano aiuto all’opposizione.
Quanto allo Stato di Israele, esso continua a mantenere le sue politiche repressive nei confronti dei palestinesi. La reazione di Benjamin Netanyahu dopo mossa fatta da Abu Mazen alle Nazioni Unite, la sua furia dopo la decisione dell’Unesco di riconoscere uno Stato palestinese, la ripresa degli insediamenti nei territori occupati nonostante gli avvertimenti della comunità internazionale mostrano che gli israeliani sono meno disposti che mai ad accettare la nascita di uno Stato palestinese dotato di tutti i crismi di sovranità.
Nei prossimi mesi si terranno le elezioni presidenziali in  Russia, che molto probabilmente confermeranno il primato del partito  Russia Unita e consacreranno il ritorno di Vladimir Putin – favorito su  Zhirinovskij, Zjuganov e Prokhorov – alla Presidenza della Federazione.  Mikhail Gorbaciov ha però cavalcato l’onda delle contestazioni di cui  l’indebolito Putin è bersaglio invitandolo a “Lasciare subito il  potere”. Quale è il suo giudizio politico su Gorbaciov e quale pensa che  sarà l’esito delle elezioni russe?
Gorbaciov è un uomo completamente screditato, che non ha più alcuna  influenza in Russia. Gli occidentali si rivolgono a lui per criticare  Putin, ma ciò non cambierà il corso delle cose. È pur vero che c’era  frode nelle elezioni dello scorso 4 dicembre, e le successive  manifestazioni testimoniano una certa perdita di popolarità di Putin.  L’intera questione è qual era l’entità della frode e se Putin ha davvero  perso l’appoggio del popolo russo.
Dalle informazioni che ho potuto ottenere, le frodi hanno effettivamente  favorito il partito Russia Unita in misura abbastanza marginale. Senza  queste frodi, Russia Unita avrebbe ottenuto il 2 o il 3% dei voti di  meno, ma sarebbe comunque arrivata in testa. Per quanto riguarda  popolarità di Putin, vedremo i risultati delle prossime elezioni  presidenziali.
Penso che Putin raccoglierà meno voti rispetto al 2004 (allora ottenne il 71% dei voti), ma sarei molto sorpreso se egli non dovesse essere rieletto. I russi non hanno dimenticato che è a lui che si devono la loro prosperità economica e il ripristino dell’autorità dello Stato. Il problema è che gli osservatori occidentali replicano nei confronti della Russia esattamente lo stesso errore commesso sulla “primavera araba”. Si immaginano che gli avversari siano sostenitori della “democrazia liberale” all’americana! Nulla di più lontano dalla realtà. Gli eventi dello scorso dicembre – che sono stati incoraggiati dagli americani, che in passato avevano fatto proprio la stessa cosa sostenendo le “rivoluzioni colorate” in Europa orientale – hanno dimostrato che coloro che criticano Putin lo fanno per motivi diversi e anche diametralmente opposti. Alcuni lo accusano di essere un “autocrate”, altri di non essere abbastanza nazionalista, altri ancora di non essere abbastanza comunista, di non essere abbastanza liberale, di essere troppo pragmatico, di non criticare più radicalmente gli Stati Uniti, ecc. L’opposizione a Putin non è un programma ma una cacofonia politica. Non dimenticate, inoltre, che i liberali del Movimento Yabloko godono appena del 4% delle preferenze secondo i sondaggi. Tutti gli altri partiti principali sono anche meno “occidentali” rispetto a Russia Unita, che si tratti di Russia Giusta, del Partito Comunista di Gennady Zyuganov o del movimento nazionalista guidato dallo stravagante Zhirinovsky. Gli americani non tengono conto di questa realtà, perché credono ancora che gli altri siano come loro. Non capiscono l’alterità. Questa è una delle cause dei loro problemi nelle relazioni internazionali.
Negli anni Settanta Richard Nixon ed Henry Kissinger  sfruttarono le tensioni tra Cina e Vietnam per riconoscere la  legittimità di Mao Tze Tung per assestare un duro colpo all’alleanza  comunista condannando l’Unione Sovietica all’isolamento internazionale, e  pochi anni dopo il Consigliere per la Sicurezza Nazionale (sotto  l’amministrazione Carter) Zbigniew Brzezinski mise a punto una strategia  che attirò l’Armata Rossa nel terribile pantano afghano. Crede che il  ritorno di Brzezinski e il recupero di una politica meno muscolare  rispetto a quella propugnata da George W. Bush segnalino l’intenzione  statunitense di contrastare il riavvicinamento tra Russia e Cina  attualmente in atto?
Gli Stati Uniti faranno l’impossibile per contrastare un riavvicinamento  tra Cina e Russia. Faranno ugualmente di tutto per limitare le zone  d’influenza di questi due paesi. Nel suo libro “La Grande Scacchiera”,  pubblicato nel 1997, Zbigniew Brzezinski enumera gli “imperativi  geostrategici” che gli Stati Uniti devono rispettare per mantenere la  loro egemonia mondiale, mettendo in guardia contro “la creazione o  l’emergere di una coalizione eurasiatica” che “potrebbe cercare di  sfidare il primato dell’America”. “Chiunque controlli l’Eurasia, ha  aggiunto, controlla il mondo”. Le cose sono dunque chiare. L’obiettivo  si riassume in tre parole: accerchiare, destabilizzare, balcanizzare.
La strategia di accerchiamento della Russia prevede l’installazione di  nuove basi militari in Europa orientale, la creazione di sistemi di  difesa missilistica in Polonia, Repubblica Ceca e Romania, il supporto  per l’adesione di Ucraina e Georgia nella NATO, il perseguimento di una  politica aggressiva volta a spezzare l’influenza russa nelle tormentate  regioni del Mar Nero, del Mar Caspio e del Caucaso. In materia di  approvvigionamenti energetici, questa strategia si è dispiegata  attraverso numerosi tentativi di porre sotto controllo gli oleodotti di  un’Asia centrale trasformata in protettorato americano, per favorire lo  sviluppo dell’oleodotto che, partendo dal Caspio, aggira la Russia a  raggiunge la Turchia, e attraverso la limitazione dell’accesso delle  petroliere russo negli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. La  creazione di un “arco di crisi” per destabilizzare la tradizionale area  di influenza della Russia nelle regioni del Caucaso, dell’Afghanistan e  dell’Asia centrale può essere compresa solo in questa prospettiva.
Parallelamente, è in atto il progetto riguardante il massiccio allargamento della NATO verso Europa orientale, i Balcani e i confini della Russia, anche all’interno della stessa ex Unione Sovietica, per dissuadere l’Unione Europea ad adottare una capacità di difesa indipendente, e frenare, per quanto possibile, la riconciliazione tra Germania e Russia attualmente in corso.
L’ascesa dei cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India,  Cina, Sud Africa) e la parallela crisi profonda in cui versano gli Stati  Uniti stanno modificando l’assetto geopolitico mondiale in una  direzione che rispecchi i reali rapporti di forza internazionali. Quale  crede che sarà la struttura del nuovo ordine mondiale e quale ritiene  che sarà il destino degli Stati Uniti?
Ci troviamo in un periodo di transizione, in un interregno. L’ordine bipolare stabilito a Yalta alla fine della seconda guerra mondiale è crollato assieme al muro di Berlino. Il nuovo ordine geopolitico planetario deve ancora nascere, ma è già chiaro che il nuovo “Nomos della Terra”, per riprendere un’espressione di Carl Schmitt, non sarà unipolare ma multipolare. Non sarà un Universum, ma Multiversum. In questo contesto, la lotta tra il potere del Mare e il potere della Terra, le contraddizioni tra Stati Uniti e il “resto del mondo”, sono destinate ad esacerbarsi. Il ruolo che svolgerà l’Europa è il segreto del futuro.
(di Giacomo Gabellini)
 

 
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