La sua definizione fu coniata da due autori, anzi due grandi letterati, che non furono tra i più significativi esponenti della stessa rivoluzione conservatrice e furono anzi due intellettuali «impolitici»: Thomas Mann e Hugo von Hofmannsthal.
Due grandi esponenti del miglior decadentismo europeo. La definizione fu poi riferita a Ernst Jünger e Oswald Spengler, Martin Heidegger e Carl Schmitt. Ne parlarono numerosi autori, da Armin Mohler a Ernst Nolte.
Ma ben presto il riferimento alla rivoluzione conservatrice fuoruscì dai confini tedeschi e mitteleuropei per designare una cultura europea in polemica con il proprio tempo: una polemica biforcuta, potremmo dire, perché da un verso segnava la critica alla modernità nel nome di una tradizione e una conservazione di cui pure avvertiva i segni del tramonto; e dall’altro era una critica al moderatismo borghese, nel nome di una rivoluzione e di una modernizzazione che avvertiva come impellente, inevitabile e anche esaltante. Gli dei vanno in macchina, potrebbe dirsi con una formula riassuntiva l’ossimoro della rivoluzione conservatrice; o per tradurla in termini meno pittoreschi e più rigorosi, la rivoluzione conservatrice era la tradizione pensata dopo le catastrofi della modernità. In breve: la tradizione dopo Nietzsche. Il conservatorismo che non si abbarbica al passato ma si cimenta con il futuro, alla ricerca dell’origine.
Nel 1987 quando il mondo era ancora bipolare, c’era il comunismo all’Est, l’Europa era divisa a cominciare dalla Germania, l’Islam non aveva fatto ancora le sue rivoluzioni e in Italia vigeva la Prima Repubblica, provai a calare la rivoluzione conservatrice nella storia civile e culturale del nostro Paese. Lo feci in un saggio - La rivoluzione conservatrice in Italia. Genesi e sviluppo della ideologia italiana (SugarCo) - che ebbe qualche fortuna anche perché si tradusse su due piani diversi. Sul piano delle idee fu il tentativo di interpretare l’ideologia italiana, la storia nazionale e la rivoluzione-restaurazione del fascismo attraverso un filo rosso che costituiva l’originalità di un pensiero italiano. Sul piano politico il libro fu un tentativo di restituire la destra alla storia italiana, non barricandosi contro il Paese e il suo presente, ma tentando di innestarsi nella tradizione italiana, uscendo dal neofascismo o dal radicalismo, aprendo all’amor patrio condiviso e al socialismo tricolore di Craxi. Il libro ebbe qualche effetto sul piano culturale e politico e poi si tradusse in un progetto che passò attraverso riviste, da Intervento a Pagine Libere, da L’Italia settimanale a Lo Stato.
Sette anni dopo, in un paesaggio completamente mutato, il bipolarismo mondiale caduto, il muro crollato, l’Islam incipiente, la fine della prima repubblica e del craxismo, l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica e lo sdoganamento della destra, La rivoluzione conservatrice in Italia ebbe una seconda edizione accresciuta. Era il 1994 e le neonate Forza Italia e Alleanza Nazionale, con gli ex Dc e la Lega, avevano appena vinto le elezioni. Il clima era davvero fervente, e L’Italia settimanale era stato un battistrada significativo e in vista, di quel cambiamento. Nella nuova edizione c’era, tra gli altri, un capitolo conclusivo dedicato alla nuova rivoluzione conservatrice che si intravedeva in Italia. E che concludeva prudente: «I tempi diranno se i soggetti incaricati di rappresentare questa nuova rivoluzione conservatrice saranno all’altezza del compito oppure no».
Oggi, a vent’anni esatti da Mani Pulite da cui nacque poi la svolta politica, che bilancio fare? A questo giro di boa è dedicata la nuova edizione de La rivoluzione conservatrice in Italia, con un bilancio introduttivo del berlusconismo e un capitolo conclusivo sul patriottismo culturale. Qualunque giudizio si possa dare di questo tormentato ventennio e dei tormentatissimi tre governi Berlusconi - uno di breve e tempestosa durata, uno di legislatura (il più duraturo nella storia della Repubblica) e l’ultimo interrotto dopo tre anni d’inferno - si può onestamente riconoscere che la rivoluzione conservatrice non ci fu; fu una rivoluzione annunciata, denunciata, e abortita. Con tutte le attenuanti generiche e specifiche, ma non ci fu.
Dico la rivoluzione conservatrice, non la rivoluzione liberale, che fu anch’essa annunciata ma poi rimase a mezz’aria. Al di là del giudizio sull’esperienza berlusconiana, su cui si cimenta il saggio introduttivo, si deve convenire che quella scommessa fu perduta. La rivoluzione conservatrice si impernia su due punti: la tradizione, che esprime l’anima di un popolo; e la modernizzazione, che si cura di ringiovanire il corpo di uno Stato. L’ammodernamento dell’Italia, come lo definì Berlusconi, fu solo avviato, con qualche significativa tappa ma interrotta, incompiuta e scollata da una riforma organica. E la tradizione non andò oltre la cresta e la crosta del populismo arcitaliano. Insomma l’Italia in questi vent’anni non ha saputo né fare i conti con la tradizione né con l’innovazione, è rimasta in mezzo al guado, nelle sabbie mobili. Ha continuato a deperire, mentre cresceva il deserto. Quel deserto nel quale oggi ci troviamo ad annaspare, tra le carcasse della destra e della sinistra, la ripresa della corruzione a ogni livello, e l’avvento dei tecnici al governo. Ci sono i professori, non ci sono classi dirigenti, soggetti politici e non c’è popolo. Solo masse di individui spaesati. La rivoluzione conservatrice ha ceduto al suo rovescio, la stagnazione dissolutrice.
(di Marcello Veneziani)
Nessun commento:
Posta un commento