Ma cosa sarebbe accaduto se il Re avesse firmato lo stato d’assedio e avesse impedito la Marcia su Roma? Ci sarebbe stata la guerra civile, i rossi sarebbero accorsi a dar manforte ai militi che fino al giorno prima sputavano o si sarebbero alleati ai fascisti? Non ci sarebbe stato il fascismo? Domande di patafisica che mi ponevo l’altro giorno a Gorizia, parlando della Marcia su Roma novant’anni dopo, al Festival «èStoria».
Cosa fu la Marcia su Roma? Una controrivoluzione preventiva, come
scrisse l’anarchico Luigi Fabbri e dissero i comunisti? Un colpo di
stato, come scrisse Missiroli? Una crisi parlamentare con salutare
soluzione extraparlamentare, come pensò Croce? Una rivoluzione indolore,
senza vittime e senza caos, come poi disse il Re? Un’insurrezione che
poi diventò regime, come scrisse Mussolini? Una rivolta solo minacciata,
una parata con prova simulata di rivoluzione? Sul piano dei fatti la
Marcia su Roma fu tutto questo. Ma nel suo significato politico la
Marcia su Roma fu una «rivoluzione rassicurante». Così fu concepita dal
suo Capo. Fu una rivoluzione rassicurante perché volle rassicurare il
Paese e il suo establishment, il popolo e i “palazzi”. Già dal 1921 il
rivoluzionario Mussolini aveva lasciato i toni antisabaudi,
anticlericali e antiborghesi. Con la Marcia rassicurò la Corona, lo
Stato, le Istituzioni, le forze armate e i militi, la Magistratura, la
Chiesa, la Borghesia, il Capitale, e pure il Parlamento, fece un governo
di coalizione. E rassicurò gli italiani che si sarebbe ripristinata la
legalità, l’ordine pubblico, la vita normale, la sicurezza sociale.
«Tutto funzionò in quei giorni - disse sette anni dopo il Re - non ci
furono vittime, le scuole restarono aperte, i tribunali, i magistrati
fecero il loro dovere, gli operai andarono ugualmente fiduciosi a
lavorare». La rivoluzione, per il Re, riportò ordine nel «popolo più
indisciplinato della terra».
In secondo luogo, la Marcia su Roma non fu la calata dei barbari
sulla capitale. L’azione fascista nasceva dal grembo della cultura
italiana, dopo lunga incubazione. Non la sostennero solo gli agitatori dell’arte e della letteratura,
del giornalismo e del pensiero, i futuristi e i nazionalisti, Papini,
Prezzolini, Soffici, D’Annunzio, Malaparte. Ma all’inizio anche fior di
liberali come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Vilfredo Pareto e
Gaetano Mosca, Maffeo Pantaleoni e Luigi Einaudi, Alberto de’ Stefani,
Luigi Albertini e Ugo Ojetti. E personalità come Giacomo Puccini e
Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello, Ada Negri e Giuseppe Ungaretti,
Umberto Saba e Giuseppe Rensi, il duca d’Aosta e la Regina Margherita.
Croce addirittura presiedette nel 1914 il Fascio d’ordine che auspicava
l’alleanza tra liberali nazionali e cattolici e criticava la massoneria,
il giudaismo e il parlamentarismo. Poi paragonò le squadre fasciste
alle «orde del cardinale Ruffo che avevano servito a scopi nazionali» e,
da seguace di Sorel, disse a Giustino Fortunato che «la violenza è
levatrice della storia». Alla Camera votò la fiducia al Duce anche dopo
il delitto Matteotti.
Quando Lenin ricevette al Cremlino una delegazione della sinistra
italiana guidata da Giacinto Menotti Serrati, disse che in Italia la
rivoluzione potevano farla solo tre capi: D’Annunzio, Marinetti e
Mussolini. Però gli altri due erano poeti... Ma D’Annunzio a Fiume fornì
il prototipo alla Marcia su Roma.
Nel 1921 Mussolini siglò un patto di pacificazione con i socialisti, mentre nasceva il partito comunista dalla costola rivoluzionaria del Psi che era stata più vicina a Mussolini ai tempi dell’interventismo rivoluzionario: da Gramsci e ad Angelo Tasca, dall’interventista Peppino Di Vittorio a Nicola Bombacci, che poi finì fascista, ucciso insieme a Mussolini a Salò. Non a caso l’Italia fascista fu il primo Paese a riconoscere l’Unione Sovietica pochi mesi dopo la Marcia su Roma. Per Soffici la differenza tra la rivoluzione fascista e quella sovietica fu netta: «Mussolini è italiano, cioè appartenente a una civiltà superiore, a una razza di liberi, di saggi, di generosi. Mussolini non è un pazzo, un degenerato, un sanguinario cittadino di un paese incivile, primitivo, brutale e malato come la Russia... il fine di Mussolini è la pacificazione sotto la bandiera italiana».
Dove nasce la Marcia su Roma? Dalla Guerra vinta e sanguinante, frustrata e mutilata, i tanti caduti, l’esperienza del fronte con l’adrenalina ancora in circolo, le sue ferite aperte e le sue energie rimaste attive. Nasce poi dal caos del dopoguerra, dagli scioperi e dalle violenze del biennio rosso. E ancora: nasce dal cortocircuito tra decadenza politico-civile ed esuberanza giovanile-culturale. Infine dalla forte personalità di un Capo che fu chiamato Duce (dicono che il primo ad appellarlo in quel modo fosse stato Pietro Nenni, già suo compagno di galera, ai tempi dell’interventismo rivoluzionario).
Il fascismo fu, come scrisse Nolte, «il modello di una rivoluzione conservatrice e incruenta». Rivoluzione-restaurazione. Eppure era imbevuta degli umori più
rivoluzionari: Marx, Nietzsche e il loro anello di congiunzione, Sorel,
teorico della violenza. La stessa cosa avvenne con il totalitarismo: la
parola fu coniata per il fascismo, la rivendicarono Gentile e Mussolini,
ma il fascismo non fu mai un regime totalitario compiuto: non ne ebbe i
tratti delineati dalla Arendt e la ferocia, ma anche perché durante il
regime Monarchia e Chiesa, Capitale e Apparati dello Stato restarono in
piedi, quasi indenni. Il fascismo fu un regime autoritario di massa, e
poi una dittatura cesarista e nazionalpopolare.
Nel ’21 Mussolini si fece monarchico e legalitario, fu il primo «ateo
devoto», ritenne la missione universale della Chiesa romana un orgoglio
per l’Italia. Impresse la svolta di regime, come egli stesso scrisse su
Gerarchia, quando istituì il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia
Volontaria per la sicurezza nazionale, da un verso costituzionalizzando
il fascismo ma dall’altro ponendo sotto tutela fascista lo Stato. È
curioso infine ricordare che nel ’21 nelle consultazioni al Quirinale
l’allora deputato Mussolini suggerì al Re di nominare capo del governo
il presidente della Camera di allora, Enrico De Nicola. Quando cadde il
fascismo e poi la monarchia, il monarchico De Nicola fu il primo
provvisorio presidente della Repubblica. Heri dicebamus, avrebbe detto
Croce. La democrazia riprese laddove era stata interrotta, e seguì il
consiglio del Dittatore...
(di Marcello Veneziani)
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