Il 9 gennaio 1992 Repubblica esce con un articolo firmato da Sandro Viola intitolato “Falcone, che peccato”. (L'articolo casualmente è sparito dall'archivio digitale di Repubblica). L'autore rimprovera al giudice Giovanni Falcone “l’eccessivo presenzialismo del magistrato” nelle trasmissioni televisive. Critiche ingrate e anche ingiuste. Pochi mesi dopo, il 23 maggio, esattamente 20 anni fa, Giovanni Falcone sarebbe stato ucciso per mano mafiosa.
Riportiamo integralmente l’editoriale di Sandro Viola.
Riportiamo integralmente l’editoriale di Sandro Viola.
D'un
uomo come Giovanni Falcone, il magistrato che alla metà degli anni
Ottanta, dal
suo posto alla Procura di Palermo, inflisse alcuni duri colpi alla
mafia, si vorrebbe dire
tutto il bene possibile. O quanto meno, per evitare di trovarsi nella
pessima compagnia di
certi suoi detrattori, non si vorrebbe dirne male. E tuttavia, da
qualche tempo sta diventando
difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s'era
guadagnato.
Egli
è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra
dominato da quell'impulso
irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei
vizi nazionali. Quella
smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei
giornali o negli studi
televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a
cominciare, sfortunatamente per
la Repubblica, dal Presidente della Repubblica – spingendoli a
gareggiare con i comici del
sabato sera, con il prof. Sgarbi, con i leaders di partito, con i
conduttori di “talk-shows”, con
gli allenatori di calcio, insomma con tutti coloro che ci affliggono
quotidianamente, nei
giornali e alla televisione, con le loro fumose, insopportabili
logorree.
Ecco
quindi il magistrato Falcone, oggi ad uno dei posti di vertice del
ministero di Grazia e Giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone
pubblicistico italiano.
Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E
come se non bastasse,
libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro-intervista dal titolo
accattivante, un
titolo metà Sciascia e metà “seriale” televisivo, “Cose di
cosa nostra”, che con il suo suono
leggero, la sua graziosa allitterazione, a tutto fa pensare meno che
ai cadaveri seminati
dalla mafia. Concludendo: ecco il giudice Falcone entrato a far parte
di quella scalcinata
compagnia di giro degli autori di “instant boooks”, degli
“opinionisti al minuto”, dei
“noti esperti”, degli “ospiti in studio”, che sera dopo sera,
a sera inoltrata – quasi un “memento
mori” -, s'affacciano dagli schermi televisivi.
Né
il giudice Falcone può invocare la sua esperienza del crimine, e del
crimine mafioso in particolare,
come giustificazione di tanti interventi. Certo, ci sono materie in
cui la parola va
data al “noto esperto”: la gastronomia, poniamo, il giardinaggio,
il salvataggio dei monumenti.
Nulla osta, infatti, acchè queste materie, vengano trattate in tutta
libertà, col più
esplicito dei linguaggi. Ma parlare di crimine quando si ricopre
un'altissima carica nell'amministrazione
della giustizia, è diverso.
Infatti,
si pone il problema formale della compatibilità tra al funzione
nell'apparato statale e
l'attività pubblicistica. E poi c'è un elemento sostanziale.
Trattare la materia mafiosa quando
si è, allo stesso tempo, un magistrato coinvolto a fondo nella lotta
alla mafia, impone
un riserbo. Costringe, se non proprio all'evasività, a discorsi
generici. Infatti, dal dr.
Falcone lo spettatore televisivo, il lettore dei suoi articoli,
ricaverà quasi sempre molto poco.
Perché quello che il direttore degli Affari Penali sa, non può
certo essere detto interamente;
e quello che pensa – se appena l'argomento è un po' delicato -, va
detto con estrema
cautela.
Il
risultato è che le esternazioni del dr. Falcone risultano quando mai
nebulose. Così, qualcuno
penserà che egli non sa niente di niente sulla criminalità
organizzata, un altro crederà
che lancia messaggi trasversali, un altro ancora riterrà che ciurla
nel manico, un ultimo
sospetterà che non sa esprimersi. E dunque che senso può avere
pronunciarsi (come
il giudice Falcone fa così di frequente), quando il decorso della
funzione giudiziaria,
gli obblighi di discrezione connessi alla carica, impediscono
giustamente d'essere
troppo espliciti? Non si potrebbe rispondere alle segreterie di
redazione del Tg2
e del Tg3 che telefonano per organizzare una trasmissione, “Grazie,
ma sono occupato”?
Beninteso,
rimproverare al giudice Falcone di contribuire senza risparmio
al “ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto,
di giudizi pontificali pre-imballati che invadono l'etere”, sarebbe
più pertinente in un altro paese che non l'Italia. In Italia, si sa come
stanno le cose. Il primo a violare giornalmente ogni obbligo di riserbo,
di misura, di rispetto per la propri funzione, è il primo cittadino
della Repubblica. E di fronte a tanto disprezzo delle regole da parte
di chi, per primo, dovrebbe servire da esempio, illustrando le virtù
della discrezione e della compostezza, prendersela col dr. Falcone può
risultare ozioso.
“Ma
è il passato del giudice Falcone, che induce alla critica. Non lo si tirerebbe
in ballo se egli fosse uno dei tanti magistrati che si sono messi a
far politica, ad ammorbare con la loro prosa indigeribile le pagine dell'”Unità”,
ad esibire le loro parlantine in televisione. Ma la capacità con
cui egli svolse i suoi incarichi alla Procura di Palermo, la stima
che suscitò
in tanti di noi costringono ad esprimere uno stupore, una riserva, sull'eccesso
di verbosità con cui egli va conducendo questa seconda parte
della sua carriera. Perché nessuno regola o consuetudine prevede che
i magistrati tengano una “rubrica fissa” sul crimine. Perché
nessun paese
civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l'attività
pubblicistica. E dunque non si capisce come mai il dr. Falcone, se
proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo di “esperto in criminalità mafiosa”,
non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando (questo
sì, questo sarebbe inevitabile) la magistratura.
Qualcuno
mi dice che le continue sortite del giudice palermitano avrebbero
un loro scopo, peraltro apprezzabile: quello d'illustrare, propagandare,
i due organismi varati recentemente per combattere meglio
la mafia, la cosiddetta Superprocura e la Dia. Personalmente, considero
la Superprocura e la Dia due misure sensate (che mi auguro
risultino efficaci) mentre mi sfuggono le ragioni di chi invece le
avversa. Ma quanto al propagandarle, il direttore degli Affari penali avrebbe
altro modo che non il presenzialismo di cui s'è detto. Due interviste
all'anno – chiare, circostanziate – sarebbero infatti più che sufficienti.
Quel
che temo, tuttavia, è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe
più placarsi con un paio d'interviste all'anno. La logica e le trappole
dell'informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva
tendono a trasformare in ansiosi esibizionismi anche uomini che
erano, all'origine, del tutto equilibrati. L'apparire, il
pronunciarsi ingenerano
ad un certo momento come una “dipendenza”, il timore lancinante
che il non esibirsi sia lo stesso che il non esistere. E scorrendo il
libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s'avverte
(anche per
il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio questo: l'eruzione
d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne
colgono nelle interviste del ministero De Michelis o dei guitti televisivi.
E,
si capisce, la fatuità fa declinare la capacità d'autocritica. Solo
così si
spiegano le melensaggini di “Cose di cosa nostra”. Frasi come: “Questa
è la Sicilia, l'isola del potere della patologia del potere”; oppure:
“Al tribunale di Palermo sono stato oggetto d'una serie di microsismi...”;
oppure ancora: “Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna
lavorare a più non posso e non m'erano necessarie particolari
illuminazioni per capire che la mafia era una organizzazione criminale”.
Dio, che linguaggio. A
Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre
“particolari illuminazioni”: così da capire, o avvinarmi a
capire, come
mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista.
(di Sandro Viola - 9 gennario 1992)
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