L’ultima volta che ho incrociato lo sguardo di Gianfranco Fini è stato a un semaforo. Io aspettavo l’autobus e lui era nella sua auto blu, sulla corsia interna di via Gregorio VII, a Roma. Ci siamo guardati un istante. Giusto il tempo di riconoscerci reciprocamente (così, almeno, spero, perché forse l’ho riconosciuto solo io, non riconoscendo nulla di ciò che era stato lui). Era stato, lui, quanto di peggio la destra potesse essere in un’Italia attardata negli anni 70 del secolo scorso. Era banale e normale. Non capiva la Voce della fogna. Non sapeva neppure chi fosse Alain de Benoist. Non apriva un libro e predicava il Fascismo del Duemila. Diocenescampi quant’era ordinario Fini, specie in tema di fascismo (a proposito: i ragazzi di CasaPound, oggi, sbagliano con “fascismo del Terzo millennio”, rischiano di restare nel solco di Fini). E se fosse utile scovare le stupidaggini ideologiche, in quel leader – così incrostato di destrismo, dove tutto il cascame della propaganda piccolo-borghese vi faceva alloggio – basterebbe svelarne la biografia: dalle simpatie per i regimi sudamericani alle gite da Saddam Hussein, fino ad arrivare alla campagna contro gli immigrati. Lo ricordo come fosse oggi, così comiziava a Montesilvano: “Devono imparare l’uso del sapone”.
Era il civilizzatore, dopo di che, certo, tutto si aggiusta. A maggior ragione si aggiustano le biografie. Ed è cambiato, Fini. Ha cominciato a non farsi riconoscere più parlando la lingua sofisticata di quelli che erano stati i suoi avversari interni. Quando si farà la storia della Destra in Italia verrà fuori tutto un mondo interessante, quello degli antifiniani, quello di Flavia Perina, di Umberto Croppi, di Fabio Granata e di Tomaso Staiti di Cuddia. Discendevano da radici importanti che erano i Pino Rauti, i Pino Romualdi, i Beppe Niccolai, e che erano tre diversi modi di buttarsi alle spalle il fascismo, quello di Rauti era “lo sfondamento a sinistra”, quello di Romualdi era il conservatorismo e quello di Niccolai, invece, era il socialismo tricolore. Si cambia e Fini, per dire, non poteva accettare uno come Romualdi che, pur essendo stato vicesegretario del Partito fascista a Salò, odiava il nostalgismo. Romualdi, raffinato e cosmopolita, spiegava sempre, non senza quella sua bella parlata predappiese: “Dopo il fascismo, sono i cretini che se ne vanno a fare i fascisti”. Fu anche il promotore “dell’idea occidentale”, Romualdi.
E Beppe Niccolai, il pisano, predicava un’Italia dove ai missini doveva essere dato il compito di difendere Adriano Sofri dalle accuse di assassinio e dove perfino Piazzale Loreto potesse finalmente trasfigurarsi, nella memoria, in un atto d’amore… Nulla di tutto ciò era in Gianfranco Fini, scelto da Giorgio Almirante, imposto in luogo di una figura straordinaria qual è Marco Tarchi, destinato a cambiare anche grazie a tutte quelle personalità – Granata, Croppi, Perina, Staiti oggi non più – un tempo irriducibilmente avversarie, quando in quello sfilacciarsi degli anni 70 e poi ancora negli anni 80, Fini restava l’Italiano in Lebole. Ed è cambiato, Fini. E’ stato anche un bravo ministro degli Esteri (niente a che vedere con Franco Frattini o, peggio, con l’attuale ministro). Aveva un ruolo alla Farnesina, era calato nella parte, e aveva un ottimo collaboratore, ovvero Salvatore Sottile che non è quello delle donne, suvvia, lo sapete bene. Lui, Salvo, è piuttosto quello che ha pagato un prezzo ingiusto senza mai chiedere di essere ripagato.
Ecco, forse ci ha messo un carico di buona fede, Fini. Lo voglio credere mentre se ne va via con la sua macchina, immagino reduce dalla sua nuova dimora di Val Cannuta. E però devo confessarlo che mi è venuto difficile scrivere questo pezzo perché, insomma, tutto s’è consumato mentre l’ho riconosciuto dietro quel vetro. E il suo modo di buttarsi alle spalle una storia è stato certo il peggiore di tutti i modi. L’antifascismo non è omeopatia, è un veleno. Altrettanto quanto può esserlo, giusta caricatura berlusconiana, l’anticomunismo. Praticare l’antifascismo oggi è un rinfocolare una guerra civile che gli italiani avevano già conclusa nel 1971, nell’anno della vittoria elettorale del Msi in Sicilia. Avrei voluto dirglielo se fosse durato ancora un minuto il semaforo rosso. E’ cambiato, certo, ma come i parvenu che ragliano al cielo la propria festosa mutazione, continua a cambiare fino a diventare uno scarto di Pier Ferdinando Casini. E ha gettato nel cesso della storia un mondo fatto di almeno tre milioni di italiani. E’ riuscito, lui, con le sue cravatte sbagliate, a distruggere un partito – un ambiente, una comunità – che da Bolzano a Trapani aveva superato le persecuzioni, l’ostracismo e l’indifferenza.
L’altra domanda, quella che magari riesco a recapitargli con queste righe, è questa: “Segretario, lo hai fatto un bilancio?”. Sicuramente sì, l’avrà fatto. E si sarà detto, sottovoce, di aver perso l’asino con tutte le carrube. Avrà fatto mente locale e capito – una volta per tutte – di non avere la stima e il rispetto di tre milioni scaricati nelle fogne. E si sarà aggiustata, ben annodata al collo, la sua cravatta il cui colore è quello del cane in fuga, bandiera di un’ambizione stritolata.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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