Dodici anni della sua “vita inimitabile” Gabriele d’Annunzio li trascorse sui colli intorno a Firenze, a Settignano, nella villa “La Capponcina”. Nel marzo 1898, il Vate, ebbro di amori e glorie, si era messo in cerca di uno spazio «claustrale» (si fa per dire...) che fungesse da «dimora serena» e da «fervida officina». E così aveva incaricato Benigno Palmerio, un veterinario abruzzese che viveva nella città gigliata, di trovargli «una villa signorile, lontana dai rumori della strada, collocata piuttosto in alto e nascosta il più possibile nel verde genuino della campagna».
Benigno ce la mise tutta per farlo contento. E alla fine la Capponcina, vecchia villa del ’400, appartenuta una volta alla famiglia dei Capponi, e allora di proprietà del marchese Giacinto Viviani della Robbia, divenne l’eletta dimora dell’Imaginifico. E Benigno il suo segretario-amministratore. Nonché «amico, confidente e confessore». E, ricordiamolo, medico dei suoi amati cani.
In seguito, si sarebbe fatto anche biografo-memorialista del Poeta, con questo libro che, edito da Vallecchi nel 1938, l’anno stesso della morte di d’Annunzio e sua, viene ora riproposto in anastatica dalle Lettere (Con d’Annunzio alla Capponcina, a cura di Marco Marchi, pp. 267, euro 32).
Che dire? Se è vero che ormai sappiamo tutto circa i fecondi anni fiorentini di d’Annunzio (nacquero allora “La Gioconda”, “La Gloria”, “Francesca da Rimini”, “La Gloria”, “La fiaccola sotto il moggio”, “ Più che l’amore”, “Fedra” e le “Laudi”), il libro di Palmerio vale comunque da devota testimonianza. Intendiamoci: il veterinario è intenzionato a offrire ai posteri un «documento», ma subisce il fascino del Vate. Così, se è vero che si impegna a registrarne le debolezze, ne mette soprattutto in risalto il «candore» e «l’ineguagliabile bontà». Sì, d’Annunzio ha le mani bucate ed è pieno di debiti, ma perché troppo generoso, specie con le sue donne.
Ma d’Annunzio, sin da quando, ventenne, aveva rapito e poi sposato la duchessina Maria Hardouin di Gallese (che gli avrebbe dato tre figli), poi sostituita dalla principessa sicula Maria Gravina (che gliene avrebbe dati due), a sua volta rimpiazzata con la Divina Eleonora Duse (che abitava a due passi dalla “Capponcina”, nell’altrettanto celebre “La Porziuncola”), a sua volta congedata per la marchesa Alessandra di Rudini (poi Suor Maria di Gesù, a espiazione delle dissolutezze), era stato o no un impenitente donnaiolo? E non lo sarebbe rimasto per sempre?
Il sin troppo benigno Benigno dice di no: «D’Annunzio non era affatto un gaudente, nel senso che comunemente si dà a questa parola. Egli amava l’amore; e la donna, le donne, non erano che il visibile e tangibile appoggio di questa sua più alta e più grande passione. Nella costante ricerca di un’anima nuova con cui confessarsi, e d’un corpo nuovo da godere, egli pagava di persona, di cuore, assai più di quanto troppo lontani e troppo sommari, e forse troppo ipocriti giudici poterono pensare e dire». Insomma, a ogni abbandono, chi soffriva davvero era lui, l’Orbo Veggente, orbato (in via provvisoria...) di un corpo e di un’anima.
(di Mario Bernardi Guardi)
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