«La crisi dell’euro rischia di spaccare l’Italia a metà». La profezia di Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale e oggi professore al Mit, si basa sullo scenario che prevede l’uscita della Grecia dalla moneta unica, e la costruzione di una nuova unione riservata ai paesi virtuosi. A quel punto l’Italia dovrà scegliere da che parte stare, con il Nord qualificato ad entrare nell’euro dei forti, e il Sud condannato all’esclusione.
Professore, cosa succederà dopo le elezioni in Grecia del 17 giugno?
«Le possibilità che Atene esca dall’euro sono salite tra l’80 e il 90%, qualunque cosa succeda al voto. Il Paese è tecnicamente fallito, l’opinione pubblica è divisa e generalmente contraria all’austery imposta dall’Europa, e a questo punto sul piano tecnico sarebbe comunque difficile evitare il default. Il vero punto diventa se l’Unione riuscirà a gestire una uscita ordinata della Grecia dalla moneta unica, oppure se si creerà una situazione di contagio incontenibile».
Lei cosa prevede?
«Siamo arrivati davvero al momento decisivo. In teoria si potrebbe ancora salvare l’euro, ma questo richiederebbe una forte d’azione di leadership, per varare una costituzione simile a quella che gli Stati Uniti adottarono al momento della loro nascita. Servirebbe la creazione di una vera autorità fiscale centrale, capace di coordinare e armonizzare le scelte dei singoli stati. Solo a quel punto si potrebbe parlare di eurobond, perché le differenze tra i bilanci sarebbero attenuate, le situazioni più irresponsabili sanate, e i tassi ridotti in linea in tutto il continente. Questa operazione, però, richiede una leadership molto determinata che al momento non si vede».
Non si può fare qualche intervento per rilanciare la crescita?
«Stesso discorso. Si potrebbe, ma perché non è avvenuto finora? Le leve su cui agire sono note, però senza la riforma di cui abbiamo parlato prima gli effetti sarebbero effimeri. Certamente l’euro ha bisogno di continuare a svalutarsi, ma questo poi avrebbe degli effetti inflazionistici che non tutti sono disposti ad accettare».
La Germania sta aumentando le esportazioni in Cina: questo ha un impatto sul suo interesse a salvare l’euro?
«È un fatto contingente, che peraltro dovrebbe riguardare tutti i Paesi europei, interessati a conquistare i mercati emergenti. Mi pare che la chiave dell’interesse tedesco a salvare l’euro più nelle riforme di cui abbiamo discusso prima, finalizzate ad uniformare i comportamenti fiscali»
Quindi cosa succederà, dopo l’uscita della Grecia?
«Un progressivo sfilacciamento dell’unione monetaria, che smetterà di esistere nella forma che conosciamo oggi. I Paesi più deboli saranno costretti ad uscire, uno dopo l’altro. A quel punto si potrà costruire un nuovo euro, riservato ai virtuosi. Si tratterà di una unione monetaria guidata dalla Germania, basata sul modello che ha funzionato a Berlino. I Paesi interessati a partecipare non dovranno avere solo i bilanci in regola, ma accettare di appartenere ad una struttura che sarà molto più tedesca. Questo significa adottare le riforme fiscali e del lavoro, che hanno consentito alla Germania di affrontare la crisi globale in chiara controtendenza rispetto a quasi tutte le altre nazioni occidentali».
Perché questo scenario che lei immagina dovrebbe spaccare l’Italia?
«Perché il Nord del vostro Paese ha tutte le carte in regola per entrare nell’unione dei virtuosi, dal punto di vista economico, della struttura produttiva, e anche dell’etica del lavoro. Il Sud invece no, sarebbe automaticamente escluso. A quel punto vi trovereste nella condizione di prendere una delicatissima decisione politica sul vostro futuro, e cioè da che parte stare. Ma sarà una decisione che non dipenderà interamente da voi, visto che i membri della nuova unione potrebbero volere il Nord e rifiutare il Sud. A quel punto cosa succederebbe? Non so immaginarlo. In gioco, però, ci sono interessi così grandi, che potrebbero anche spaccare il Paese».
Professore, cosa succederà dopo le elezioni in Grecia del 17 giugno?
«Le possibilità che Atene esca dall’euro sono salite tra l’80 e il 90%, qualunque cosa succeda al voto. Il Paese è tecnicamente fallito, l’opinione pubblica è divisa e generalmente contraria all’austery imposta dall’Europa, e a questo punto sul piano tecnico sarebbe comunque difficile evitare il default. Il vero punto diventa se l’Unione riuscirà a gestire una uscita ordinata della Grecia dalla moneta unica, oppure se si creerà una situazione di contagio incontenibile».
Lei cosa prevede?
«Siamo arrivati davvero al momento decisivo. In teoria si potrebbe ancora salvare l’euro, ma questo richiederebbe una forte d’azione di leadership, per varare una costituzione simile a quella che gli Stati Uniti adottarono al momento della loro nascita. Servirebbe la creazione di una vera autorità fiscale centrale, capace di coordinare e armonizzare le scelte dei singoli stati. Solo a quel punto si potrebbe parlare di eurobond, perché le differenze tra i bilanci sarebbero attenuate, le situazioni più irresponsabili sanate, e i tassi ridotti in linea in tutto il continente. Questa operazione, però, richiede una leadership molto determinata che al momento non si vede».
Non si può fare qualche intervento per rilanciare la crescita?
«Stesso discorso. Si potrebbe, ma perché non è avvenuto finora? Le leve su cui agire sono note, però senza la riforma di cui abbiamo parlato prima gli effetti sarebbero effimeri. Certamente l’euro ha bisogno di continuare a svalutarsi, ma questo poi avrebbe degli effetti inflazionistici che non tutti sono disposti ad accettare».
La Germania sta aumentando le esportazioni in Cina: questo ha un impatto sul suo interesse a salvare l’euro?
«È un fatto contingente, che peraltro dovrebbe riguardare tutti i Paesi europei, interessati a conquistare i mercati emergenti. Mi pare che la chiave dell’interesse tedesco a salvare l’euro più nelle riforme di cui abbiamo discusso prima, finalizzate ad uniformare i comportamenti fiscali»
Quindi cosa succederà, dopo l’uscita della Grecia?
«Un progressivo sfilacciamento dell’unione monetaria, che smetterà di esistere nella forma che conosciamo oggi. I Paesi più deboli saranno costretti ad uscire, uno dopo l’altro. A quel punto si potrà costruire un nuovo euro, riservato ai virtuosi. Si tratterà di una unione monetaria guidata dalla Germania, basata sul modello che ha funzionato a Berlino. I Paesi interessati a partecipare non dovranno avere solo i bilanci in regola, ma accettare di appartenere ad una struttura che sarà molto più tedesca. Questo significa adottare le riforme fiscali e del lavoro, che hanno consentito alla Germania di affrontare la crisi globale in chiara controtendenza rispetto a quasi tutte le altre nazioni occidentali».
Perché questo scenario che lei immagina dovrebbe spaccare l’Italia?
«Perché il Nord del vostro Paese ha tutte le carte in regola per entrare nell’unione dei virtuosi, dal punto di vista economico, della struttura produttiva, e anche dell’etica del lavoro. Il Sud invece no, sarebbe automaticamente escluso. A quel punto vi trovereste nella condizione di prendere una delicatissima decisione politica sul vostro futuro, e cioè da che parte stare. Ma sarà una decisione che non dipenderà interamente da voi, visto che i membri della nuova unione potrebbero volere il Nord e rifiutare il Sud. A quel punto cosa succederebbe? Non so immaginarlo. In gioco, però, ci sono interessi così grandi, che potrebbero anche spaccare il Paese».
(di Paolo Mastrolilli - fonte:www.lastampa.it)
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