«Gira gira l'elica, romba il motor, questa è la bella vita
dell'aviator...». Così, con allegra marcetta, il regime fascista, che
aveva fatto suo il culto del volo che fu dei futuristi, raccontava negli
anni Trenta, in forma accessibile alle masse, i progressi
dell'aviazione italiana. E dove non arrivava la musica arrivavano i film
come I tre aquilotti (in cui nella parte di un pilota coraggioso c'era
un giovane Alberto Sordi). E sino allo scoppio del secondo conflitto
mondiale Mussolini aveva tutte le ragioni, all'apparenza, per definire
l'aeroplano «il più fascista dei velivoli».
Gli idrovolanti col tricolore e il littorio si erano dimostrati
all'altezza di ogni impresa, basti pensare a Balbo il trasvolatore o ai
molti successi ottenuti nella guerra di Spagna dai nostri piloti contro i
«rata», ovvero i Polikarpov I-16 forniti dall'Urss alla repubblica. Per
capire come da trionfi e trionfalismi si sia poi passati al dramma dei
pochissimi piloti della Repubblica di Salò, che si alzavano in volo
senza alcuna speranza per affrontare centinaia e centinaia di
bombardieri e caccia alleati, si trova un aiuto validissimo nel libro di
Mirko Molteni appena pubblicato da Odoya, L'aviazione italiana
1940-1945 (pagg. 638, euro 28, prefazione di Gregory Alegi).
Sul
disastro dell'aviazione italiana si è scritto molto, concentrandosi
soprattutto sulla scarsità di velivoli moderni, sui limiti di produzione
delle nostre aziende e sugli errori dei comandi, come lo sviluppo
tardivo di una rete radar o la scelta suicida di non investire sugli
aereo siluranti. Però il libro di Molteni, giornalista con la passione
del volo (scrive per Volare, Ali Antiche, Rid) rispetto a tutta la
pubblicistica precedente, ha qualcosa di più. Un'attenzione fortissima
agli uomini, ai piloti. Così quella che in molti testi, anche dotti, è
una narrazione fredda in questo caso si riempie delle testimonianze
dirette di chi sugli scalcinati apparecchi italiani si trovò a volare.
L'epopea dei biplani C.R.42 costretti a battersi con i molto più armati e
potenti Hurricane inglesi rivive nelle parole del sergente Giuseppe
Ruzzin: «Un Hurricane lo colsi al culmine di una forte cabrata... vidi
l'aereo quasi scampanare e in quell'istante gli scaraventai una nutrita,
aggiustata raffica. Cadde subito in avvitamento...». Oppure nelle
parole del tenente della Raf Edward Preston Wells che racconta come i
piloti italiani riuscissero a cavarsela grazie alle loro doti
acrobatiche: «Non appena ho aperto il fuoco lui fece un mezzo giro
strettissimo e io fui del tutto incapace di seguirlo... Allora ne
attaccai altri due o tre... i nemici facevano mezzi giri strettissimi...
In due casi furono in grado di girare quasi sulla mia coda e di
spararmi...».
Ma pian piano la superiorità tecnica e numerica del nemico
finiva inevitabilmente per avere la meglio. Ecco il sergente pilota
Emilio Piva sul caccia G.50 con cui gli italiani stavano tentando di
munirsi di un monoplano decente: «Era un mattone. Era assai facile
entrare in vite e rischiare di schiantarsi. Una volta mi capitò proprio
sul fronte greco-albanese, ma riuscii a uscire dalla vite proprio
all'ultimo minuto». O la disperazione appena mascherata del generale
Pricolo sul fronte africano: «In conseguenza della vera ecatombe di
apparecchi non è assolutamente possibile ripristinare non dico la
superiorità aerea, ma neppure una inferiorità sopportabile». O l'eroismo
senza senso di chi combatte senza poter vincere come il pilota Romolo
Ballestra assegnato agli obsoleti bombardieri Ca.133 (velocità massima
di 250 km orari in un epoca in cui i caccia volavano al doppio): «Gli
Hurricane ci attaccarono in coda, il Caproni di sinistra precipitò in
fiamme, quello di destra, colpito, picchiò da matto e sparì... Io tirai a
fondo le manette del gas, guardai la lancetta del tachimetro che
avanzava, ma a 175 km/h si fermò. Il capitano osservatore si avvicinò a
noi e ci fece vedere un polpaccio squarciato».
E poi alla fine i
disperati di Salò tra cui anche l'asso e medaglia d'oro Luigi Gorrini, a
cui in totale furono attribuiti 19 caccia nemici abbattuti. «Il mio
ultimo combattimento fu quando venni abbattuto, era la quinta volta, a
Reggio Emilia... Ci diedero l'allarme molto in ritardo e partimmo, ma
non riuscimmo a fare quota a sufficienza e ci piombarono addosso: mi
hanno abbattuto... Ho aperto il paracadute, ma nella caduta a terra ho
battuto violentemente la schiena... persi conoscenza. Il medico a Reggio
mi fece avere una licenza: ero ridotto male, vicino ad un esaurimento
nervoso, e me ne andai a casa. Quando tornai stava tutto per
finire».
Storie incredibili quelli degli assi delle «carrette siciliane»
(così gli inglesi chiamavano i nostri aerei) peccato che dopo la guerra
siano state quasi tutte dimenticate. Non solo quella di Gorrini (che per
avere un documentario ha dovuto aspettare il 2011) ma anche quella di
Franco Lucchini (21 vittorie) o di eroi «piccoli» come l'aviere Rosario
D'angelo che tenne con le mani il tirante spezzato dai proiettili del
timone di coda del Br20 Cicogna su cui era imbarcato. Atterrò coperto di
sangue e coi palmi straziati ma salvò il suo equipaggio. Vale la pena
di riscoprirle, sono storie vere e accorate, mica canzonette di regime.
(di Matteo Sacchi)
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