Che peccato: finirà così. Finirà che questo genere di ritorno non potrà dare un fatto nuovo. Quello di candidarsi nuovamente è uno di quei remake fatto con materiali scaduti e renderà impossibile anche la nostalgia. Berlusconi che torna da padrone della mobilia si priverà della felicità di farsi amare, di farsi ricordare, di far alzare il coro di “caro lei, quando c’era lui…”. E finirà che spenderà tutto il cospicuo gruzzolo della memoria. L’ultima scena è quella che svuota l’imprinting e nessuno domani dirà “peccato che non c’è più”. Essere scampato al Piazzale Loreto del Bunga Bunga, alla defenestrazione per tramite di governo tecnico, al rogo delle procure e poi tornare alla Camera dei deputati, da sconfitto oltretutto, dimenticando quanto sia inevitabilmente “sorda e grigia” quella palude dell’ipocrisia italiana, non potrà che consegnarlo a un destino ordinario. E dovrebbe essere umiliante per l’eroe capricciosissimo che ha insegnato alla gente quanto sia politico il corpo, specie il corpo vincente, replicare stancamente lo show ad uso di un pubblico sgamato e annoiato. Tornerà, ormai è deciso, ma il suo tornare sarà la riproduzione stanca di tutto il già fatto. Forse avrà il suo quid, Berlusconi, ma non ha più quell’idem sentire con gli italiani che ha permesso alla stagione appena conclusa di riconoscerlo come cosa propria. Che peccato, tutte le sue stagioni – quella liberale coi professori e coi terzisti, quella delle invenzioni del kit e della Nave azzurra dei candidati, quella euforica del cucù alla Merkel, quella americana del truce Bush, quella neo-ottomana di Erdogan, quella sovversiva delle cene eleganti – non potranno avere l’allegria di un irresistibile sovrano quale lui fu, capace di far ridere i suoi buffoni senza neppure sentire la necessità di dotarsi di un giullare. Non vuole saperne dell’uscita di scena ed è un peccato. Sarebbe stata una scena tutta sua. Peccato. Nessuno domani potrà dire: “Peccato che non c’è più lui”.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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