L'Eco di quarant'anni fa torna a bussare in libreria. Lo ristampa 
Bompiani e viene riproposto col suo titolo anodino, Il costume di casa, e
 un sottotitolo allusivo: «Evidenze e misteri dell'ideologia italiana 
negli anni Sessanta» (pagg. 484, euro 10,90). Il libro è assai 
istruttivo, coincide con un'epoca cruciale che culmina nel '68 e poi si 
intristisce nei cupi anni seguenti. È un libro coevo, per capire il 
clima, alla firma di Umberto Eco apposta al manifesto di Lotta Continua 
contro il commissario Calabresi, poco dopo ucciso su mandato dei 
medesimi lottacontinuai.
Pagine interessanti, non c'è dubbio, a tratti acute, da cui traggo 
quattro o cinque spunti utili per capire il presente. Parto da quel 
tempo. Negli anni Sessanta c'era in Italia una vera borghesia, dignitosa
 e ipocrita, come è poi la borghesia, che aveva senso del decoro e della
 morale, un discreto amor patrio, un reverenziale rispetto per le 
tradizioni culturali e religiose, anche se talvolta fariseo o filisteo. 
Le sue basi erano i costumi di vita ereditati, la buona educazione e le 
lezioni impartite dalla scuola del tempo. Eco demolisce quei santuari a 
uno a uno: il senso della tradizione e dei buoni costumi, il senso 
religioso e il legame con la morale comune, la meritocrazia e 
«l'illusione della verità». Auspica una «guerriglia semiologica» (in 
quegli anni erano parole di piombo), nega il rispetto del latino - 
«L'ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o 
forse di forsennata invidia: voglio che anche i miei figli abbiano gli 
orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi 
quando comando» - distrugge i buoni sentimenti e il suo alone retorico 
che promanavano dal libro Cuore, libro di formazione di più generazioni 
che servì a edificare un sentire comune dell'Italia postunitaria e che 
per Eco è invece «turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, 
paternalistica e sadicamente umbertina»; elogia Franti il cattivo e vede
 in lui il modello positivo dei contestatori, anzi di più, lo vede come 
ispiratore di Gaetano Bresci, l'anarchico che uccise all'alba del '900 
Re Umberto a Monza.
Capite che benzina Umberto Eco abbia gettato sul fuoco di quegli anni 
feroci. Il cattivo maestro Eco poi contesta il filosofo Abbagnano che 
elogia la selezione e il merito, sostenendo che la selezione sia solo 
una legge di natura da correggere con la cultura e la solidarietà e 
auspica «che non ci sia più una società dove predomina la 
competitività». Declassa la religione a fiaba e suggerisce non di 
avversarla come facevano gli atei dichiarati ma più subdolamente di 
relativizzarla presentandola come fiaba tra le fiabe. Giudica 
impossibile un Picasso che dipinga l'Alcazar fascista come dipinse 
Guernica antifascista; dimenticando il filone futurista e fior d'artisti
 fascisti (a proposito dell'uso politicamente ambiguo della pittura, 
cito l'esempio di Renato Guttuso che riprodusse un suo manifesto 
fascista antiamericano degli anni Quaranta in un manifesto comunista 
antiamericano degli anni Sessanta in tema di Vietnam. Riciclaggio 
ideologico).
Umberto Eco poi si allarma, come Pasolini e altri, perché cresceva agli 
inizi degli anni Settanta la cultura di destra in Italia, con nuovi 
autori ed editori (Il Borghese, Volpe, la Rusconi diretta da 
Cattabiani). E le dedica uno sprezzante articolo, confondendo 
volutamente pensatori e picchiatori, «magistrati retrivi» (allora le 
toghe erano considerate protofasciste) e riviste culturali. Particolare 
l'acredine verso il suo concittadino alessandrino Armando Plebe, 
all'epoca approdato a destra ma di cui Eco nega perfino la provenienza 
marxista (Plebe fu invece l'unico filosofo italiano vivente a essere 
citato come marxista nell'Enciclopedia sovietica). Eco disprezza autori 
come Guareschi e Prezzolini, Evola e Zolla, Panfilo Gentile e «il 
risibile pensiero reazionario». E fa una notazione volgare: «la nuova 
destra rinasce soltanto perché un certo capitale editoriale sta offrendo
 occasioni contrattuali convenienti a studiosi e scrittori, alcuni dei 
quali rimanevano isolati per vocazione, e altri non sono che 
arrampicatori frustrati». Un'analisi così rozza e faziosa non l'abbiamo 
letta neanche nei volantini delle Brigate rosse. Fa torto al suo acume. È
 come se spiegassimo la cultura di sinistra con i soldi venuti dall'Urss
 o le firme de l'Espresso-La Repubblica con i soldi di Carlo De 
Benedetti... Sarebbe volgare, falso o almeno riduttivo.
Eco avverte i suoi lettori che «il capitalismo come entità metafisica e 
metastorica non esiste». Al fascismo, invece, Eco attribuisce entità 
metafisica e metastorica elevandolo a Urfascismo: il fascismo come 
eterna dannazione. Sul rapporto tra cultura e capitalismo la 
considerazione becera fatta sugli autori di destra si inverte quando 
invece si tratta di un autore «di sinistra»: anche se «ha un rapporto 
economico con i mezzi di produzione» lui non ne dipende, perché conta 
«il rapporto critico dialettico in cui egli si pone con il sistema». 
Traduco: se la cultura di destra trova investitori è asservita al 
Capitale e lo fa mossa solo dai soldi; se la cultura di sinistra è 
finanziata dal Capitale, invece usa gli investitori ma non si fa usare e
 ha scopi nobili... Può vivere «di prebende largite da chi detiene i 
mezzi di produzione» perché quel che conta è «la presa di coscienza» (io
 direi ben altra presa...). Loro prezzolati, noi illuminati.
Il testo è utile perché rivela la matrice di Eco: prima che semiologo è 
ideologo. Mascherato. Traspare quell'ideologia illuminista radical che 
traghetta la sinistra dal comunismo al neocapitalismo, spostando il 
Nemico dai padroni ai fascisti, dal Capitale ai reazionari, in cui Eco 
include cristiano-borghesi e maggioranze silenziose. L'antifascismo 
assurge a religione civile, a priori assoluto nella lotta tra 
Liberazione e Tradizione, che sostituisce la lotta di classe.
Questo testo mostra le origini colte della barbarie odierna e della 
relativa intolleranza. Se viviamo in un'epoca che rigetta la cultura 
classica, l'amor patrio, le buone maniere, le buone letture, la 
meritocrazia, la scuola selettiva, forse non è frutto semplicemente del 
berlusconismo... Infine il testo di Eco dimostra che la destra è 
demonizzata anche quando non si riduce al rozzo cliché dei picchiatori o
 dei prepotenti o, mutatis mutandis, dei leghisti o dei berluscones. Ma 
si accanisce sprezzante anche sulla destra colta, i suoi libri, i suoi 
editori, scrittori e filosofi, oggi da cancellare ieri da eliminare; 
come accadde a Giovanni Gentile, prototipo dell'intellettuale out. Un 
assassinio pensato in seno alla cultura e nutrito col fiele 
dell'ideologia. Il passato, a volte, echeggia. 
(di Marcello Veneziani)
 

 
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