«Gli anni '70 per me sono la scuola elementare, i giochi con le amiche, 
nascondino, prendersi, alla guerra. Di quel che accadeva intorno a me 
conservo poche immagini sfuocate, avevo una vaga paura degli uomini con i
 capelli lunghi, delle manifestazioni, delle scritte sui muri. Una, di 
fronte a casa di mia nonna, nella periferia di Padova, diceva: Fuori i 
compagni del 7 aprile. Perché fuori, perché compagni?». Inizia 
così, con delle bellissime e commoventi immagini familiari girate in un 
Super8 ancora splendente e con un commento autobiografico letto dalla 
stessa Silvia Giralucci il suo documentario Sfiorando il muro, diretto 
insieme a Luca Ricciardi, proiezione speciale fuori concorso alla 
prossima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia a fine agosto. 
E non sarà - non è - un film che passerà inosservato. Perché per Silvia 
Giralucci gli anni '70 sono stati soprattutto l'uccisione del padre 
Graziano, avvenuta nel 1974 nella sede padovana del Movimento Sociale 
Italiano. Primo - duplice - omicidio rivendicato direttamente dalle 
Brigate Rosse per cui sono stati condannati per concorso morale Renato 
Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti e come esecutori Roberto 
Ognibene, Fabrizio Pelli, Susanna Ronconi, Giorgio Semeria, Martino 
Serafini. Silvia aveva 3 anni, il papà - rugbista, agente di commercio e
 militante missino, appena 29. Ma Sfiorando il muro, con le bellissime 
musiche di Stefano Lentini non è un lavoro ispirato, neppure 
lontanamente, da sentimenti di rivalsa. «La mia storia personale - 
spiega l'autrice che l'anno scorso ha pubblicato per Mondadori L'inferno
 sono gli altri all'origine di questo documentario - si porta dentro 
diverse contraddizioni: sono figlia vittima del terrorismo, ma di 
destra, quindi meno vittima degli altri, anzi, diciamo pure un po' 
colpevole. Sono figlia di un missino e rispetto la storia di mio padre 
ma non mi sento di destra». Così nel film non può non documentare gli 
annuali «Presente!» strillati in strada con le braccia tese ma - dice - 
«per loro mio padre è un simbolo per me è una persona, ed è qualcosa di 
più». Ciò che Silvia Giralucci fa è semplicemente cercare di capire, 
finalmente dal punto di vista di una vittima (come Mario Calabresi e 
Benedetta Tobagi) dopo le tante - troppe - voci dei protagonisti della 
violenza, come sia possibile che nel nostro paese l'appartenenza 
politica «oscurasse persino la pietas per i morti dell'altra parte». 
Fino a poco tempo fa peraltro. «La prima scena che ho girato - spiega 
l'autrice - è la targa che ricorda a via Zabarella a Padova l'assassinio
 di mio padre. Era appesa a un palo perché il condominio non la voleva 
sul palazzo, poi il sindaco (Flavio Zanonato del Pd, ndr) ha ordinato la
 sua affissione. Un momento simbolico in cui ho potuto affrontare il mio
 lutto grazie anche al riconoscimento pubblico». Perché tutto parte da 
Padova, paradigmatica incubatrice della violenza bipartisan e malefica 
aula d'insegnamento di cattivi maestri alla Toni Negri. Il professore di
 Potere Operaio che - ricorda Silvia Giralucci - «non mi ha mai voluto 
incontrare e quando per caso su un treno ci siamo trovati faccia a 
faccia mi ha ribadito il suo no senza voler gettare la maschera». Molto 
diverso è l'ex autonomo Raul Franceschi scappato in Francia per non 
finire in galera all'indomani del 7 aprile del 1979 quando furono 
arrestati decine di giornalisti, professori, leader e militanti del 
movimento e di Potere Operaio (da qui le scritte sui muri «Fuori i 
compagni del 7 aprile»). Verso di lui la più bella forma di pietas 
dell'autrice che, non a caso, lavora anche per la rivista Ristretti 
Orizzonti sul mondo carcerario: «Ho trovato un sopravvissuto a 10 anni 
di eroina e una persona che ha creduto, onestamente, di poter cambiare 
il mondo, e che ha pagato carissimo il prezzo di averlo fatto nel modo 
sbagliato. Una vita alla deriva. Mi sento male a pensare alla sua 
stamberga alla periferia di Parigi e alla casa veneziana di Toni Negri».
Il film dal taglio cinematografico, con le interviste girate con le 
tecniche del grande documentarista statunitense Errol Morris, si avvale 
di un'imponente ricerca di filmati (anche in Super8) e fotografie poco o
 mai viste. Prodotto da Marco Visalberghi, Sfiorando il muro ha avuto i 
contributi della Regione Veneto e della municipalizzata padovana 
AcegasAps ma non quelli del Ministero dei beni culturali. «Il doc - dice
 l'autrice senza voler suscitare polemiche - non ha avuto un punteggio 
sufficiente in due diverse richieste. Peccato perché altrimenti lo 
avremmo potuto distribuire meglio nei cinema». 
(di Pedro Armocida)
 

 
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