È morto Ugo Franzolin, giornalista e scrittore, nato a Correzzola l’8 ottobre 1920, autore di numerosi libri, tutti sugli anni della giovinezza, sulla sua esperienza di soldato in Africa e sui mesi della Repubblica sociale italiana, trascorsi con la X Mas come corrispondente di guerra. Il suo libro più noto è quel “I Giorni di El Alamein”, basato sui suoi ricordi personali di sopravvissuto, pubblicato nel 1966, che gli valse un elzeviro laudativo di Indro Montanelli.
Franzolin amava ripetere di essere «morto il 25 aprile 1945», quando venne arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore, a Milano, accusato di collaborazionismo con i tedeschi. Lo scrittore è venuto a mancare in una casa di cura a Grottaferrata, in provincia di Roma, dove era costretto dalle sue condizioni di salute, e fino all’ultimo ha lavorato ad un nuovo libro, dedicato alla sua esperienza di scrittore. La morte lo ha colto quando gli mancava un solo capitolo alla conclusione.
Franzolin amava ripetere di essere «morto il 25 aprile 1945», quando venne arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore, a Milano, accusato di collaborazionismo con i tedeschi. Lo scrittore è venuto a mancare in una casa di cura a Grottaferrata, in provincia di Roma, dove era costretto dalle sue condizioni di salute, e fino all’ultimo ha lavorato ad un nuovo libro, dedicato alla sua esperienza di scrittore. La morte lo ha colto quando gli mancava un solo capitolo alla conclusione.
Ecco un ritratto dell’autore de “I giorni di El Alamein” scritto da Pietrangelo Buttafuoco per “Il Foglio” nel 1997
Roma. Camminano come camminano i vivi. E saluta al modo dei vivi. Passa una signora e si leva il cappello. Accenna un inchino. Ugo Franzolin che aveva diciannove anni quando, «marinaio e figlio della Serenissima», andò in Africa settentrionale, anche adesso che scrive romanzi, anche adesso che ha raccontato “I giorni di El Alamein” meritevoli di un elzeviro di Indro Montanelli, anche adesso che prende il caffè a via Del Lavatore, va in lungo e in largo per le strade contorte del centro con la mazzetta dei giornali sottobraccio e fa colazione con Aldo Giorleo, «il paracadutista», dice di essere solo «un morto, uno che è morto il 25 aprile 1945». Dice: «Lì finisce la mia storia». Il 26 aprile, arrestato e rinchiuso a San Vittore, «collaboratore con il tedesco invasore». Lui aveva creduto di combattere contro «un mondo che arrivava per sommergere la nostra vita e le nostre tradizioni». Aveva le idee chiare: «Ritenevo che il mio nemico fosse la V e la VIII Armata».
Cammina sollevando da terra i suoi pensieri. È un ragazzo che ha chiuso la sua partita a Salò. Oggi vive a Roma, ci arrivò inseguito dalla «Volante Rossa», che aveva «un fare che non ammetteva repliche». Una sera andò da lui Peppino Farina, partigiano liberale del CLN. Gli disse: «Vogliono farti fuori, salvati». Pino Fraschini, uno di Pavia, gli scrisse una lettera: «Trasferisciti a Roma, qui se ne fregano dei partigiani». Franzolin spesso incontra i suoi camerati, anche gli amici marinai tedeschi che lo vengono a trovare e anche quelli «che vincendo hanno perso». Tedeschi, fascisti e comunisti insieme guardano al mondo con un occhio che non è invecchiato, ma fermo a quello Zenit particolare della giovinezza: «II nostro ideologico s’è bloccato». E infatti non si fanno più la guerra. A lui e agli altri, anche «ai comunisti», l’età della Parietti e di Prodi evoca uno scenario «mediocre». Gli ex-combattenti della RSI sono una lobby di mutua rammemorazione. Tra loro, «luminari della scienza medica». Si prendono cura l’uno dell’altro. Discutono del mondo che va avanti senza di loro. Hanno parlato a lungo, per esempio, di Adriano Sofri: «Rispetto chiunque rischia per la propria idea» dice Franzolin. E gli ex di tutte le battaglie, infatti, si assomigliano sempre, quasi si annusano, si riconoscono nel lampo che portano dentro gli occhi. Come gli amici di Sofri, i camerati di Franzolin chiedono «il riconoscimento della dignità combattente».
Avendo ancora la divisa, sarebbe tale e quale Bepi Faliero, il soldato raccontato da Hugo Pratt, quello di Sirat al Bunduqiyyah, e cioè Eja eja alala, la Fiaba di Venezia, la storia di Hipazia e la Clavicola di Salomone. Inchiodata sul palmeto, «con quel deserto che arriva fino al mare», veglia immobile la sua luna di «figlio della Serenissima in terra calda». I cieli del Veneto, le passeggiate ai Colli, la campagna che abbaiava rotolando fino in Laguna. Venezia città dei mari: «Con noi altissime personalità del censo nobiliare: il conte Foscari, il figlio di Nazario Sauro, Urbano Rattazzi». Acque sulla sabbia. Tripoli, Bengasi, Tobruk, Marsa Matruk, i ragazzi dell’Afrika Korps. Vivere non è più vivere: «Nel bene e nel male abbiamo conosciuto dei giganti». L’universo di Franzolin è costellato di giovinezze, di «fratelli d’arma», di «giornate durissime» e di dolcezze fatte scivolare nei ricordi dell’infanzia: «il mio paese in Veneto, Villa del Bosco, e poi Viadana, vicino Mantova, sfiorata dal Po». E stato un amico di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, i due incolpevoli tenebrosi prestati a Salò, quel mondo strafottente di ex-combattenti portati dal destino per condividere sberleffo, eroismo e forse finzione. Marinetti ovviamente, Marco Ramperti, il poeta delle dive cinematografiche. Tanti gli attori: Walter Chiari, Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, un ambiguo Dario Fo, e giustamente Ugo Tognazzi, fascistissimo Primo Arcovazzi, nel film di Luciano Salce, “Il Federale”. Arcovazzi, mani sui fianchi, fa un ritmato e marziale piegamento in basso, un-duè. Su e giù, su e giù come da esercitazione. A chi gli chiede , «cavalleria?», lui risponde: «No, coglioni sudati». A Franzolin piace una scena, quella del professore antifascista desideroso di un sospiro di tabacco che, pur di non fumarsi le sigarette regalate dagli americani, strappa la pagina de “l’Infinito” dal libro di Leopardi, arrotola e fuma paglia. «Tanto lo conosco a memoria», dice. Proprio come gli aveva insegnato l’Arcovazzi Primo. Ognuno insegna ciò che può. E spésso, i morti, insegnano ai vivi.
Roma. Camminano come camminano i vivi. E saluta al modo dei vivi. Passa una signora e si leva il cappello. Accenna un inchino. Ugo Franzolin che aveva diciannove anni quando, «marinaio e figlio della Serenissima», andò in Africa settentrionale, anche adesso che scrive romanzi, anche adesso che ha raccontato “I giorni di El Alamein” meritevoli di un elzeviro di Indro Montanelli, anche adesso che prende il caffè a via Del Lavatore, va in lungo e in largo per le strade contorte del centro con la mazzetta dei giornali sottobraccio e fa colazione con Aldo Giorleo, «il paracadutista», dice di essere solo «un morto, uno che è morto il 25 aprile 1945». Dice: «Lì finisce la mia storia». Il 26 aprile, arrestato e rinchiuso a San Vittore, «collaboratore con il tedesco invasore». Lui aveva creduto di combattere contro «un mondo che arrivava per sommergere la nostra vita e le nostre tradizioni». Aveva le idee chiare: «Ritenevo che il mio nemico fosse la V e la VIII Armata».
Cammina sollevando da terra i suoi pensieri. È un ragazzo che ha chiuso la sua partita a Salò. Oggi vive a Roma, ci arrivò inseguito dalla «Volante Rossa», che aveva «un fare che non ammetteva repliche». Una sera andò da lui Peppino Farina, partigiano liberale del CLN. Gli disse: «Vogliono farti fuori, salvati». Pino Fraschini, uno di Pavia, gli scrisse una lettera: «Trasferisciti a Roma, qui se ne fregano dei partigiani». Franzolin spesso incontra i suoi camerati, anche gli amici marinai tedeschi che lo vengono a trovare e anche quelli «che vincendo hanno perso». Tedeschi, fascisti e comunisti insieme guardano al mondo con un occhio che non è invecchiato, ma fermo a quello Zenit particolare della giovinezza: «II nostro ideologico s’è bloccato». E infatti non si fanno più la guerra. A lui e agli altri, anche «ai comunisti», l’età della Parietti e di Prodi evoca uno scenario «mediocre». Gli ex-combattenti della RSI sono una lobby di mutua rammemorazione. Tra loro, «luminari della scienza medica». Si prendono cura l’uno dell’altro. Discutono del mondo che va avanti senza di loro. Hanno parlato a lungo, per esempio, di Adriano Sofri: «Rispetto chiunque rischia per la propria idea» dice Franzolin. E gli ex di tutte le battaglie, infatti, si assomigliano sempre, quasi si annusano, si riconoscono nel lampo che portano dentro gli occhi. Come gli amici di Sofri, i camerati di Franzolin chiedono «il riconoscimento della dignità combattente».
Avendo ancora la divisa, sarebbe tale e quale Bepi Faliero, il soldato raccontato da Hugo Pratt, quello di Sirat al Bunduqiyyah, e cioè Eja eja alala, la Fiaba di Venezia, la storia di Hipazia e la Clavicola di Salomone. Inchiodata sul palmeto, «con quel deserto che arriva fino al mare», veglia immobile la sua luna di «figlio della Serenissima in terra calda». I cieli del Veneto, le passeggiate ai Colli, la campagna che abbaiava rotolando fino in Laguna. Venezia città dei mari: «Con noi altissime personalità del censo nobiliare: il conte Foscari, il figlio di Nazario Sauro, Urbano Rattazzi». Acque sulla sabbia. Tripoli, Bengasi, Tobruk, Marsa Matruk, i ragazzi dell’Afrika Korps. Vivere non è più vivere: «Nel bene e nel male abbiamo conosciuto dei giganti». L’universo di Franzolin è costellato di giovinezze, di «fratelli d’arma», di «giornate durissime» e di dolcezze fatte scivolare nei ricordi dell’infanzia: «il mio paese in Veneto, Villa del Bosco, e poi Viadana, vicino Mantova, sfiorata dal Po». E stato un amico di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, i due incolpevoli tenebrosi prestati a Salò, quel mondo strafottente di ex-combattenti portati dal destino per condividere sberleffo, eroismo e forse finzione. Marinetti ovviamente, Marco Ramperti, il poeta delle dive cinematografiche. Tanti gli attori: Walter Chiari, Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, un ambiguo Dario Fo, e giustamente Ugo Tognazzi, fascistissimo Primo Arcovazzi, nel film di Luciano Salce, “Il Federale”. Arcovazzi, mani sui fianchi, fa un ritmato e marziale piegamento in basso, un-duè. Su e giù, su e giù come da esercitazione. A chi gli chiede , «cavalleria?», lui risponde: «No, coglioni sudati». A Franzolin piace una scena, quella del professore antifascista desideroso di un sospiro di tabacco che, pur di non fumarsi le sigarette regalate dagli americani, strappa la pagina de “l’Infinito” dal libro di Leopardi, arrotola e fuma paglia. «Tanto lo conosco a memoria», dice. Proprio come gli aveva insegnato l’Arcovazzi Primo. Ognuno insegna ciò che può. E spésso, i morti, insegnano ai vivi.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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