La Spagna è ormai prossima a chiedere l’aiuto del fondo salva-stati perché non riesce più a rifinanziare da sola il proprio debito sul mercato. Non è più solo il settore bancario ad aver bisogno del sostegno esterno, ma le finanze pubbliche; gran parte dei “bonos” – i titoli di stato di Madrid – sono in scadenza a ottobre, e ci sono due mesi in cui il governo di Madrid negozierà le condizioni alle quali l’aiuto verrà prestato.
Come si è arrivati a questo punto? Solo quattro anni fa la Spagna era una delle economie più floride, ad alta crescita dell’Unione europea; ora si trova con un calo del Pil di 5 punti in meno di quattro anni e un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (dall’8,3 al 21,7%), il più alto in Europa. Il caso spagnolo riassume meglio di altri errori e responsabilità, nazionali ed europee, che stanno portando a una spirale autodistruttiva.
Nel decennio pre-crisi la Spagna cresceva ad un ritmo medio del 3-4% l’anno, creando circa 8 milioni di posti di lavoro, quasi la metà di tutta l’Ue. La popolazione aumentava del 15%. Il boom spagnolo aveva alcune peculiarità che lo rendevano potenzialmente vulnerabile: la crescita era concentrata in settori di beni non esportabili (servizi e settore immobiliare), con conseguente enorme disavanzo della bilancia commerciale. Un caso molto simile a quello degli Stati uniti. Anche in Spagna questo sviluppo si accompagnava a una crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e parallelamente a un’enorme disponibilità di finanziamento a basso costo, con tassi d’interesse minimi. Da un lato, aumentava l’indebitamento privato delle famiglie, che sosteneva il consumo e la domanda interna; dall’altro, si creavano posti di lavoro poco qualificati e temporanei, prevalentemente legati al settore delle costruzioni. Non è un caso che la Spagna avesse il più alto livello di abbandono scolastico d’Europa.
Nel momento in cui arriva la crisi finanziaria, con conseguente contrazione del settore immobiliare, la distruzione di posti di lavoro è la più rapida d’Europa: in pochi anni vanno in fumo oltre 2 milioni di posti di lavoro. La bolla immobiliare scoppia, le famiglie rimangono indebitate, il valore degli immobili inizia a scendere. Il rischio d’insolvenza si trasferisce dalle famiglie alle banche e da queste allo stato, che le sostiene. Le finanze pubbliche, fino a pochi anni fa fra le più virtuose di tutta la zona euro (debito sotto il 60% del Pil e addirittura avanzo di bilancio), precipitano in una situazione insostenibile. La bolla immobiliare del decennio pre-crisi e la disponibilità di credito a costi minimi hanno, fra le altre cose, sostenuto la domanda interna. L’insostenibilità del settore immobiliare come motore dell’economia era nota, e la Spagna stava raddoppiando gli investimenti pubblici in ricerca ed innovazione con l’idea di procedere a un graduale cambiamento di modello economico, capace di creare meno posti di lavoro di prima, ma più qualificati e soprattutto più sostenibili. I bassi tassi d’interesse sul debito pubblico permettevano allo stato di finanziare uno stato sociale generoso e di dotarsi delle più moderne infrastrutture d’Europa.
Un’economia di questo tipo, concentrata sui servizi e sui settori di beni non esportabili, con un grande disavanzo della bilancia commerciale, ha bisogno di una forte domanda interna per crescere. Nei periodi di crescita il circolo virtuoso si autoalimenta; nei periodi di crisi c’è bisogno che gli investimenti pubblici compensino i minori consumi privati. Se i settori che hanno spinto la crescita sono simili a quelli degli Stati Uniti, Washington ha potuto finora evitare il collasso perché ha il pieno controllo della propria politica monetaria, è la prima potenza economica mondiale, continua in ogni caso a pagare interessi minimi per rifinanziare il proprio debito, e ha applicato senza indugi una politica di stimolo di tipo keynesiano per far fronte alla crisi.
Proprio nel momento in cui l’economia spagnola aveva bisogno di un maggiore stimolo da parte del settore pubblico per compensare la contrazione della domanda interna, sono invece arrivate le misure di austerità imposte dall’esterno, ma sostenute con convinzione dal governo nazionale. Forte aumento dell’Iva, tagli alla spesa pubblica, licenziamenti dei dipendenti pubblici, riduzione dei sussidi per i disoccupati, del salario minimo, delle liquidazioni per chi è licenziato, “alleggerimento” della legislazione per la protezione del lavoro, depotenziamento del ruolo dei sindacati nella contrattazione collettiva, probabilmente abolizione dell’indicizzazione dei salari e delle pensioni, sono le iniziative suggerite dall’esterno e accolte dal governo di centro-destra di Mariano Rajoy. Esse hanno una caratteristica in comune: deprimere la domanda interna nella speranza di aumentare la produttività e rendere le esportazioni più competitive.
L’imposizione di politiche di austerità a un’economia di questo tipo, deprimendo la domanda interna, non può che avere effetti disastrosi. Si tratta di una “svalutazione interna” – visto che non esiste più una moneta nazionale che si possa svalutare – che punta a ridurre i costi delle produzioni, tagliando salari e stato sociale, con l’obiettivo di aumentare produttività e competitività delle esportazioni. Una politica moralmente inaccettabile e socialmente deleteria che, per di più, nel caso spagnolo non può funzionare. Questo approccio potrebbe al limite aver senso in economie a forte base manifatturiera e più concentrate nella produzione di beni esportabili, tipo Germania o Italia, che assomigliano più al modello cinese che a quello americano. Ma nel caso spagnolo l’austerità – imposta da Berlino, via Francoforte e Bruxelles – diventa del tutto inefficace e porta a un circolo vizioso dal quale non si vede via d’uscita.
Il governo socialista ha peccato di troppa prudenza e scarsa ambizione, evitando di disinnescare la bolla speculativa immobiliare prima che scoppiasse, temendo effetti negativi, che però si sono verificati lo stesso, in modo ancora più dirompente. L’ambizione di creare un nuovo modello economico, investendo in ricerca e innovazione, cercando di “attrarre cervelli” e sviluppando nuovi settori, è stata poi cancellata dai drastici tagli imposti dal governo popolare di Rajoy. I tagli accelerano la contrazione della domanda. La “svalutazione interna” non ha nessun effetto positivo sulla crescita. In pochi anni la Spagna perde quel patrimonio di competitività e di attrattività per gli investimenti esteri lentamente acquisito nei decenni precedenti grazie alla qualità dei servizi, pubblici e privati, delle infrastrutture e dello stato sociale.
Viene spontaneo chiedersi se tutto questo sia necessario. Solo la miope ostinazione ideologica neoliberista dominante nell’Europa di questi anni – o il non dichiarato obiettivo di far arretrare di vent’anni un paese che stava avvicinandosi troppo al “centro” dell’Europa – potrebbero spiegare l’imposizione di politiche che hanno devastato la Spagna. Solo la scarsa autonomia politica ed intellettuale dei dirigenti spagnoli – sia popolari che socialisti – può spiegare perché l’élite del paese abbia accettato di devastare l’economia nazionale. La catastrofe di Madrid, più che gli altri casi, resterà una macchia indelebile nelle politiche europee di questi anni.
Come si è arrivati a questo punto? Solo quattro anni fa la Spagna era una delle economie più floride, ad alta crescita dell’Unione europea; ora si trova con un calo del Pil di 5 punti in meno di quattro anni e un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (dall’8,3 al 21,7%), il più alto in Europa. Il caso spagnolo riassume meglio di altri errori e responsabilità, nazionali ed europee, che stanno portando a una spirale autodistruttiva.
Nel decennio pre-crisi la Spagna cresceva ad un ritmo medio del 3-4% l’anno, creando circa 8 milioni di posti di lavoro, quasi la metà di tutta l’Ue. La popolazione aumentava del 15%. Il boom spagnolo aveva alcune peculiarità che lo rendevano potenzialmente vulnerabile: la crescita era concentrata in settori di beni non esportabili (servizi e settore immobiliare), con conseguente enorme disavanzo della bilancia commerciale. Un caso molto simile a quello degli Stati uniti. Anche in Spagna questo sviluppo si accompagnava a una crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e parallelamente a un’enorme disponibilità di finanziamento a basso costo, con tassi d’interesse minimi. Da un lato, aumentava l’indebitamento privato delle famiglie, che sosteneva il consumo e la domanda interna; dall’altro, si creavano posti di lavoro poco qualificati e temporanei, prevalentemente legati al settore delle costruzioni. Non è un caso che la Spagna avesse il più alto livello di abbandono scolastico d’Europa.
Nel momento in cui arriva la crisi finanziaria, con conseguente contrazione del settore immobiliare, la distruzione di posti di lavoro è la più rapida d’Europa: in pochi anni vanno in fumo oltre 2 milioni di posti di lavoro. La bolla immobiliare scoppia, le famiglie rimangono indebitate, il valore degli immobili inizia a scendere. Il rischio d’insolvenza si trasferisce dalle famiglie alle banche e da queste allo stato, che le sostiene. Le finanze pubbliche, fino a pochi anni fa fra le più virtuose di tutta la zona euro (debito sotto il 60% del Pil e addirittura avanzo di bilancio), precipitano in una situazione insostenibile. La bolla immobiliare del decennio pre-crisi e la disponibilità di credito a costi minimi hanno, fra le altre cose, sostenuto la domanda interna. L’insostenibilità del settore immobiliare come motore dell’economia era nota, e la Spagna stava raddoppiando gli investimenti pubblici in ricerca ed innovazione con l’idea di procedere a un graduale cambiamento di modello economico, capace di creare meno posti di lavoro di prima, ma più qualificati e soprattutto più sostenibili. I bassi tassi d’interesse sul debito pubblico permettevano allo stato di finanziare uno stato sociale generoso e di dotarsi delle più moderne infrastrutture d’Europa.
Un’economia di questo tipo, concentrata sui servizi e sui settori di beni non esportabili, con un grande disavanzo della bilancia commerciale, ha bisogno di una forte domanda interna per crescere. Nei periodi di crescita il circolo virtuoso si autoalimenta; nei periodi di crisi c’è bisogno che gli investimenti pubblici compensino i minori consumi privati. Se i settori che hanno spinto la crescita sono simili a quelli degli Stati Uniti, Washington ha potuto finora evitare il collasso perché ha il pieno controllo della propria politica monetaria, è la prima potenza economica mondiale, continua in ogni caso a pagare interessi minimi per rifinanziare il proprio debito, e ha applicato senza indugi una politica di stimolo di tipo keynesiano per far fronte alla crisi.
Proprio nel momento in cui l’economia spagnola aveva bisogno di un maggiore stimolo da parte del settore pubblico per compensare la contrazione della domanda interna, sono invece arrivate le misure di austerità imposte dall’esterno, ma sostenute con convinzione dal governo nazionale. Forte aumento dell’Iva, tagli alla spesa pubblica, licenziamenti dei dipendenti pubblici, riduzione dei sussidi per i disoccupati, del salario minimo, delle liquidazioni per chi è licenziato, “alleggerimento” della legislazione per la protezione del lavoro, depotenziamento del ruolo dei sindacati nella contrattazione collettiva, probabilmente abolizione dell’indicizzazione dei salari e delle pensioni, sono le iniziative suggerite dall’esterno e accolte dal governo di centro-destra di Mariano Rajoy. Esse hanno una caratteristica in comune: deprimere la domanda interna nella speranza di aumentare la produttività e rendere le esportazioni più competitive.
L’imposizione di politiche di austerità a un’economia di questo tipo, deprimendo la domanda interna, non può che avere effetti disastrosi. Si tratta di una “svalutazione interna” – visto che non esiste più una moneta nazionale che si possa svalutare – che punta a ridurre i costi delle produzioni, tagliando salari e stato sociale, con l’obiettivo di aumentare produttività e competitività delle esportazioni. Una politica moralmente inaccettabile e socialmente deleteria che, per di più, nel caso spagnolo non può funzionare. Questo approccio potrebbe al limite aver senso in economie a forte base manifatturiera e più concentrate nella produzione di beni esportabili, tipo Germania o Italia, che assomigliano più al modello cinese che a quello americano. Ma nel caso spagnolo l’austerità – imposta da Berlino, via Francoforte e Bruxelles – diventa del tutto inefficace e porta a un circolo vizioso dal quale non si vede via d’uscita.
Il governo socialista ha peccato di troppa prudenza e scarsa ambizione, evitando di disinnescare la bolla speculativa immobiliare prima che scoppiasse, temendo effetti negativi, che però si sono verificati lo stesso, in modo ancora più dirompente. L’ambizione di creare un nuovo modello economico, investendo in ricerca e innovazione, cercando di “attrarre cervelli” e sviluppando nuovi settori, è stata poi cancellata dai drastici tagli imposti dal governo popolare di Rajoy. I tagli accelerano la contrazione della domanda. La “svalutazione interna” non ha nessun effetto positivo sulla crescita. In pochi anni la Spagna perde quel patrimonio di competitività e di attrattività per gli investimenti esteri lentamente acquisito nei decenni precedenti grazie alla qualità dei servizi, pubblici e privati, delle infrastrutture e dello stato sociale.
Viene spontaneo chiedersi se tutto questo sia necessario. Solo la miope ostinazione ideologica neoliberista dominante nell’Europa di questi anni – o il non dichiarato obiettivo di far arretrare di vent’anni un paese che stava avvicinandosi troppo al “centro” dell’Europa – potrebbero spiegare l’imposizione di politiche che hanno devastato la Spagna. Solo la scarsa autonomia politica ed intellettuale dei dirigenti spagnoli – sia popolari che socialisti – può spiegare perché l’élite del paese abbia accettato di devastare l’economia nazionale. La catastrofe di Madrid, più che gli altri casi, resterà una macchia indelebile nelle politiche europee di questi anni.
(fonte: www.sbilanciamoci.info)
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